L’antica Cina di San Francisco

Asian Art Museum - San Francisco

Il Museo d’Arte Cinese di San Francisco ci permette di comprendere due cose: primo, l’arte orientale dipende da un sistema spirituale, filosofico e religioso forse in modo ancora più stringente che per l’occidente; secondo, il sistema culturale che si viene a creare, nella sua varietà, è coeso in una logica che non ha niente da spartire con quello occidentale. Oriente e occidente dividono lo stesso mondo ma non si sono mai realmente conosciuti.

Vedendo alcuni dei guerrieri di terracotta a dimensione naturale della famosa tomba dell’imperatore Qin Shi Huang (siamo nel terzo secolo avanti Cristo, il buddismo arriverà molto più tardi, siamo nel taoismo) si impara che la rappresentazione orientale nasce tra gli elementi, cosicché le sculture possono davvero animarsi di un’umana energia , autentica, spettrale ma non cupa, vivente, poiché non traducono un’identità precedente ma la manifestano.

L’uomo per gli orientali si trova ‘tra’ gli elementi della natura e del mondo, quindi non ci può essere cessione d’energia tra i due stati su un piano fisico e materiale, di superficie. L’uomo è estraneo alla fusione del mondo, isolato, ma vivo, come vivo è il mondo in cui si trova. L’uomo instaura un dialogo con la propria natura per raggiungere un equilibrio al fondo di sé: lì si riunisce alle cose del mondo.

L’arciere con un ginocchio a terra e l’altra gamba divaricata col piede poggiato gira la figura lanciando il pugno in fuori, là dove stava l’arco, trascinando tutta l’attenzione della figura, ma non nel solo volto o negli occhi, che pure sono tesi, ma nel tutt’uno della posa che fonde corpo e spirito in una sola cosa. Si coglie una densità di fluida concentrazione plastica fusa in uno e così animata nell’istante di un’essenza, nell’istante in cui l’uomo esprime la sua intensa presenza nella natura e nel mondo. Egli si fa spazio tra le cose del mondo. Egli, lì, si mostra vivo, eternamente vivo, veramente culmine di vita, alla radice del reale. Il mondo impara a dare spazio, a contenere questo potenziale umano, quasi potesse considerarlo con rispetto, fondendosi con lui dall’altra sponda di un’esistenza. Tra mondo e uomo c’è uno spazio vuoto nel quale scorre l’intero universo, ed è nel proprio annullamento che egli rintraccia l’annullamento del mondo in un unico fluire.

La dinastia Zhou, mille anni prima di Cristo. Il vasellame da loro prodotto, unico per caratteristiche, ci fa capire da dove emerge la ‘modernità’ della concezione precedentemente enunciata.

Sono grandi coppe di bronzo la cui superficie è costellata da segni scavati nella superficie esterna dell’oggetto e la cui forma tesa e squadrata, possente e ininterrotta, forma un’armatura. Sono oggetti rituali. I manici spessi e duri, fortemente angolati e solidi. Compare un fitta possente tessitura di bronzo, in massiccio rilievo che abbraccia dall’esterno l’oggetto e che protegge l’interno quieto e liscissimo, sereno, quasi mentale. Sono oggetti che si proteggono da un’aggressione naturale, e più forte ancora: sono oggetti che sentono su di sé la pressione del mondo, del tutt’uno del mondo, e tentano e riescono a respingerlo, tenendolo a bada, appena più lontano dei bordi tormentati ed equilibrati dei recipienti.

È una cultura che si misura con lo spazio del mondo, sentendolo invasivo, tormentante della condizione dell’uomo che riconosce in sé uno spazio mentale autonomo.

Forse il fisico, in quei tempi mitici, era sposo del mentale, coppia indissolubile, e tutto ciò che poteva aiutare la mente aveva un’implicazione rilevante nel mondo fisico. In seguito la mente avrebbe trovato la sua autonomia. Prima una cosa, poi l’altra, in un susseguirsi di scoperte e di nuovi adattamenti, in una catena. Questo processo di adattamenti e di invenzione si può applicare anche alla cultura occidentale, ma il modo in cui noi l’abbiamo messa in opera è a dire il vero l’esatto opposto: abbiamo cercato una dominazione del mondo circostante, e più anticamente abbiamo cercato un agguato al mondo (con conseguenti fughe) piuttosto che un atto protettivo, ossia la protezione delle nostre facoltà (l’immobilità orientale è maestra, come l’allontanamento nel mondo per ritrovarlo). L’invenzione occidentale, è conservazione in oriente: due mondi davvero distinti, due universi culturali con leggi proprie e non scambiabili.

Quattromila anni prima, anche in Cina i vasi di argilla riportavano semplici disegni geometrici in un rosso più scuro, linee parallele in passaggi ondulati o angolari, dell’identico stesso tipo visto in occidente. Ecco una comune radice e due reazioni completamente opposte. L’atto originario di ripetere sull’argilla manipolata, parte della terra madre, i codici umanamente estratti dal mondo, portava il seme di un’unità intellettuale indipendente o partecipante, che avrebbe già da quel momento contraddistinto l’uomo. Partecipare al mondo rendendosi indipendenti (nell’antagonismo occidentale) o rendersi indipendenti per partecipare al mondo (nell’armonia della ricezione, in oriente)? Su questo pianeta abbiamo tutti e due, ed essi formeranno in futuro un’unica cosa.

In una sala, tra i vasti ritrovamenti della tomba dell’imperatore Qin Shi Huang, erano in mostra in una successione di teche trasparenti diversi uccelli a dimensione naturale, in bronzo, papere, cicogne e altro.

Molto naturali, in pose armoniose, autonome, viventi. Chi accucciato, chi in piedi. Ma qualcosa non tornava. Ed ecco delle foto su dei pannelli a parete che riprendevano gli scavi e i ritrovamenti degli stessi oggetti nella loro posizione originaria. Le papere disposte in un modo tale che sembravano andare alla deriva nella corrente, e gli altri uccelli intorno affaccendati nelle loro attività. Cos’è la natura se non questo spazio vivente che lega tutti gli elementi in una catena vitale dove ogni attimo riprende vita in quel punto dell’universo? Ecco lì, negli spazi della vastissima tomba, ricreati gli ambienti e i loro abitanti secondo la regola del vuoto che riporta in vita le cose, in una scintilla che attraversa tutto l’universo senza tempo. Un’eternità è toccata con la costruzione dei vuoti in relazione, delle lacune che nutrono e stabilizzano i comportamenti. La natura è per l’uomo orientale un’armonia che non può essere mutata o trasformata, ma conservata e posseduta, nel la sua energia originaria. Quell’energia è la stessa che l’uomo trova all’origine di sé, nel mondo prima e nella mente poi, ‘tra’ tutte le cose esistenti. Ma tutto questo non dipende che da una scelta umana, creatrice della cultura orientale da una parte, e, dall’altra, con una diversa scelta, creando la cultura occidentale. È quindi probabile che queste due culture possano riunirsi, trovando un approdo da quel medesimo vaso di qualche millennio prima.

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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