La pittura etrusca

Ci sono alcune sorprese generate dagli affreschi delle tombe etrusche di Tarquinia.

La pittura antica andava per piani, uno davanti all’altro, ma le quinte in effetti possono scivolare una nell’altra. Gli alberi creano il luogo in uno spazio senza dimensioni o dalle dimensioni molteplici, sono il linguaggio spaziale dell’affresco (hanno l’altezza degli uomini e delle donne in movimento singolo tra loro). Le persone animano lo spazio, ognuna con il proprio fulcro, ognuna con il proprio carattere. Gli uccelli planano, si posano, spiccano il volo, rendono viva la trasparenza dell’aria in una quinta che viaggia davanti e dietro le figure umane e vegetali, intrecciandole. Il tempo è la scansione di un ritmo fermo e deflagrante, ripetuto e reiterato. Lo spazio dell’affresco è tempo che si ordina e si stratifica, e lo fa principalmente utilizzando le tre pareti oltre l’uscio, dando stacchi dinamici, tematici e narrativi (tra lo specchiarsi della parete destra e sinistra) e concentrazioni (parete di fondo).

Altra questione è il delinearsi della figura contenuta in una riga che ondulante la stringe in un profilo vivo, mobile, ed estrosamente attivo. Potrei pensare che il segreto consiste nella regola del rispettare una stabilità e di confermarla con il suo occasionale tradimento: un volto parte in alto esponendo il mento in fuori; o le mani spesso ingigantite articolate come vivi destreggiamenti e prolungamenti dello spazio, come organi musicali, accordo del movimento stesso; o la veste che fascia i fianchi scendendo fino a metà coscia che si stringe in pieghe ondulate che descrivono discretamente il volume dello spazio e il suo ardire; o i piedi a volte a terra poggiati, a volte accostati su un albero come a sporgere, come a sostenere con leggerezza e concretezza lo spazio dell’ambiente. Gli occhi dei volti messi di profilo sono bocche aperte frontalmente, stupite, che espongono le labbra un occhio, un cerchio puro, nero. Il corpo ha spalle larghe e vita stretta, bei piedi e lunghe mani, ed è rosso, appare rossastro (invece, spesso i volti dei defunti sono bianchi, e il resto del loro corpo anche, tenuto insieme da una sola oscillante, viaggiante, linea. Ballano, suonano, si divincolano nell’aria sempre puramente bianca (nell’oscurità della camera mortuaria quel bianco di tutte le profondità lascia stagliare le figure e le cose con grande naturalezza, è lo spettro di una natura che mostra lo spettro di una vita vera, nell’attimo avvolgente che la descrive) sulle pareti laterali, e nel fondo della stanza con frequenza si affollano in un banchetto. In una tomba un banchetto possedeva un fitto alternarsi di campi bianchi, rossi e blu, tanto da riportarmi con la mente agli affreschi di Piero della Francesca in Arezzo. Tutto serrato in un appiattirsi di piani gli uni sugli altri così ben coreografato da emanare lo spazio dialogante o trasmittente tra le diverse figure spesso in coppia l’una verso l’altra nella folla, in piedi o sdraiati sul triclinio, uomini, donne, giovanetti, versatori di vino, suonatori di flauto, defunti dal volto bianco e armonico. Gambe lunghe e sederi in fuori, proporzionanti.

Tutto è evocazione, sintesi del vivo, manifestazione sfuggente di un’immagine percepita in una vita, quindi memoria, fede nella memoria, apparizione di un pittorico sortilegio, ideale formazione: la linea è una trappola evanescente, dove vive la forma e il suo spirito umanizzato (l’arte può realmente manifestare il vivo, ‘memorizzarlo’ nel mondo. Avviene il miracolo della linea bidimensionale che viaggiando nello spazio vivente del suo limite raggiunge un realismo di movimento umano in atto, nelle speciali posizioni assunte dalle figure, che coglie l’emanazione reale di un corpo in una mente che lo percepisce. Vedere il movimento è vivere il movimento! L’attimo è eterno e non può avere fine, stabile nel tempo, sua risoluzione.

C’è una tomba ricostruita con gli affreschi originali al museo della città. Immediato e semplice accade l’impossibile, i piani si fondono in una reale visione e noi assistiamo agli avvenimenti in quanto fatti viventi. Se quanto detto prima faceva apparire gli affreschi come equilibri dipinti in connessione con lo spettatore che li vede, qui gli elementi (le nature) dei diversi piani si rispondono e si caricano a vicenda, in un’unità temporale continua e rifluita dentro se stessa senza termine: la posizione delle figure influenza quella degli uccelli che traducono il flusso di una più grande melodia (i musici che suonano flauti e lire lo fanno più forte al silenzio dell’affresco, più forte e più alto!). Si vede chiaramente la continuità di uno spazio in creazione, definito da una musica presente e melodica perché segreta e segretata dalla pittura con la partecipazione degli uccelli rappresentati come immagini di note emesse dal loro corpo variamente librato nell’aria; e poi gli umani: suonatori, ascoltatori, danzatori, sono origine e diapason dell’unità di questo spazio ricreato vivo, abitatori e suscitatori, ascoltatori e risponditori. Così le due pareti laterali, gemelle, partecipano tra loro a uno sfondamento dello spazio reale che le divide e le unisce, anche per mezzo di chi le abita (l’uomo lì disteso, è ancora vivo nella morte, e noi da vivi con lui nella morte viva, nella vita rovesciata davvero davanti a occhi spenti, e così nei nostri attraverso il loro filtro. Al centro, il banchetto, e un animale grande e felino passa sotto i triclini animando più lentamente lo spazio che lì avviene, rallentandolo, e più avanti due uccelli fermi, poggiati a terra, sempre nel bianco, intravisto sotto ad altri triclini, pacificando e lasciando lo spazio alla densità dei rapporti, qui davvero palpabili e vissuti, come una massa viva di relazioni, avvenenti, che colmano un luogo, come se allo spazio naturale e musicante delle pareti laterali se ne sostituisse uno esclusivamente umano, pesantemente vibrato da discorsi accavallati ed ebbri, convivio sonoro e spirituale, che ben traduce l’ogni-direzione di ciascun individuo. Ed ecco intrecci innumerevoli di scontri e di accordi, fuggevoli, perduranti, illusori, contaminanti: ecco quanto il pittore mostra all’osservatore, all’osservante: al centro della musica naturale, al suo tacere, in massa il vociare degli uomini, altra musica in quella prima musica, a divederla, spaccarla, insinuandovisi, misurandola più veracemente in una compresenza di rapporti reciproci tra identità definitorie dello spazio che si alimentano. Siamo nel fuoco dell’apparenza e della sua liberazione nella morte.

Ecco la Cappella Sistina del mondo etrusco, l’equivalente per i bizantini dei mosaici della basilica di San Vitale a Ravenna.

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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