Due Capolavori di Cima da Conegliano a Parma

L’incontro con Cima da Conegliano. Quando è avvenuto? Non ricordo nulla di lui prima di questi due grandi quadri al Palazzo della Pilotta di Parma. Dietro al teatro Farnese, ricostruito dopo il bombardamento, saliamo sul palcoscenico lievemente inclinato verso la quinta ricostruita di fresco legno (dietro tralucono, oltre due file sovrapposte di archi, gli affreschi originali del seicento, scorci di palazzi e di cieli, sensazioni di piazze e di vita) e arriviamo alla balaustra dove, in uno stretto andito, mi sporgo e vedo lì in basso appoggiato, in piedi, con l’immagine rovesciata di fianco, quello che io credo essere un Guercino. Tutto me lo dice, la fronte alta del vecchio, il cielo blu ferito da un ampio chiarore elettrico…

Il genio di Cima da Conegliano può essere descritto rapidamente in poche parole, tanto è lampante e perfezionato: niente differenzia pittoricamente le figure dal luogo in cui si muovono. Tutto è cura maniacale, stesso desiderio di pittura, perfezione, dedizione, universo d’assorbimento. Niente oro, niente false misure, niente centralità dell’individuo, anzi, i personaggi, tanto reali, in un luogo identicamente reale, sembrano perdersi, vagare lungamente prima di venire a riunirsi davanti allo spettatore nello spazio di terra inquadrato dalla cornice. Non mi sono spiegato bene? Lo spazio e il luogo che circondano le figure sono dipinti con la stessa precisione e dedizione. Figure e spazio circostante non si attirano, rimangono circostanze l’uno e dell’altro. Non c’è drammatizzazione, ma indifferente pacificata realizzazione, attuazione dello scenario.

Noi, biologicamente, in che rapporto siamo col mondo circostante? C’è una normalità alla base di questo rapporto, una simbiosi diretta e circostanziale. Siamo fatti per questo mondo, e il mondo ci accoglie in sé senza alterazioni, in un tempo equivalente. Questa parità tra essere e terra si ritrova solidamente trasportato nei quadri di Cima di Conegliano. La Madonna è una donna, il santo un vecchio e l’angelo una guardia, tutti e tre stanchi di un compito faticoso portato a compimento, lì, vicino alle rovine di un palazzo dell’antica Roma; sosta? Lascito. Gesù è un bambino, la mamma lo posa su una propaggine di cornicione ed egli sta seduto, e volge lo sguardo altrove alla nostra destra, e una luce lo illumina, lo isola, lo stacca dal contesto, lui è il nuovo, il resto del quadro è il passato, è ciò che è stato. Oltre il bambino e ciò che rappresenta, in fuori, solo lo schermo di una luce fuori dal quadro lo attira. La città, su una collina a sinistra in alto al dipinto, mostra ciò che è abbandonato e che verrà ritrovato, nuovo, da questa altra parte del quadro, verso di noi, in un secondo orizzonte. In mezzo, la scena, il lascito del bimbo: non sente fatica lui, è pronto al cammino.

Ecco che tutto si ricarica, e quella donna ridiventa ciò che è, la Madonna, con Gesù suo figlio, San Michele e Sant’Andrea (la croce alla quale si sorregge è vista in prospettiva, ben eretta, e l’alto legno orizzontale tocca il palazzo, e il taglio preciso di sezione quadrata è giovane, luminoso, chiaro, ancora ‘vergine’ della sua storia, presentato così a ricordare che il momento di purezza rimarrà intatto: la fede è già compiuta prima che la narrazione della storia sia conclusa).

C’è una dolcezza tutta pittorica nel modo che ha Cima di portare a compimento il dipinto, un amore non più metafisico come quello di Beato Angelico (una sua Madonna abbiamo visto poco prima, il cui drappo dall’astrazione di un monocromo di purissimo blu improvvisamente si forma dell’ombra e delle pieghe che nascono sulle ginocchia della Vergine), ma fisico, materiale, dolcissimo di dedizione e di plasmazione, di quiete operativa. Il pittore sembra privo di fretta o nevrosi, non insegue un ideale che gli può sfuggire; ha tutto il tempo, pare, di lavorare all’impasto pittorico dei segni fino al culmine dello riempimento della figura. E ogni cosa dipinta è figura e niente sovrasta l’altra, e il quadro crea un avvento neutrale che lascia scorrere la narrazione al suo destino, vedendola poi tornare indietro e infondersi lieve nelle parti della scena. C’è eguaglianza pittorica di ogni parte, e ogni cosa è sommamente dipinta e pare carica di tutto il tempo necessario. Sarà un metro e trenta per due metri, ipotizzo.

L’altro quadro, gemello? La Madonna in trono, Gesù bambino seduto in movimento e nudo (invece la delizia del vestitino del quadro di Beato Angelico, a linee verticali alternate rosse e bianche, in piedi, dolce ma acuto nella sua verticalità come una lancetta scattata sull’una, stabile e disassato, tanto delicatamente, da percepirne la meraviglia della condizione, infantile e architettata; si regge al velo trasparente che la madre gli porge, orlato d’oro), ha le gambe aperte sul ginocchio della madre, sporto nell’ombra, con la testa tonda coperta da capelli corti e fittissimi, quasi d’oro, verso il viso in luce di santa Caterina d’Alessandria o il libro sacro al fianco del petto di San Paolo. Tre santi a destra, tre a sinistra. La scena irreale diventa credibile, perde ogni artificiosità. Sono davvero i santi persone arrivate lì, intorno alla Madonna, in quel momento, e si dispongono ognuno in una posa attiva (si sente nella posizione che assumono quel viaggio in narrazione che li ha mossi dal loro luogo a questo). Guardarli disporsi è invitante per noi, quasi noi fossimo per nostra natura non dissimili da quel mondo comportamentale, noi stessi chiamati al cospetto della Madonna, la nostra storia descrive il suo tragitto a ritroso e poi fino a lei. Tutto è nella resa dei volti, anche essi mobili in una rivoluzione compiuta. Avvicinandosi, tuffandoci nella pittura, nel millimetro, la pittura resiste a ogni usura d’analisi, e ribatte il significato di una terra pittorica tracimante con quiete, dove neanche uno spillo entrerebbe tra una traccia di pennello e l’altra.

Una compattezza così pareggiata, senza picchi manifesti, fa del quadro un campo stabile d’azione necessaria. Le storie si liberano e scorrono secondo il loro risaputo percorso e qui in una trappola attualizzante. I personaggi, come in un mantice, perdono la loro storia per ritrovarla. Essa può essere letta chiaramente. C’è un istante perpetuo in cui la nostra materia continua nella materia de mondo. Questa è la rivoluzione di Cima da Conegliano.

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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