L’opera di Teodosio Magnoni

È il grado zero della rappresentazione ciò su cui lavora da più di sessant’anni lo scultore Teodosio Magnoni. Da diverse direzioni, ne tenta l’avvicinamento, mai ne svela il mistero e sempre ne chiarisce la condizione.

Il suo è un progetto scultoreo: là dove altri scultori cercano l’oggetto, Magnoni cerca ciò che non è l’oggetto, e tutt’altro che solipsistico è il suo agire, anzi altruistico, votato alla svuotamento dell’oggetto, della sua oggettività, per raggiungere una universalità oggettivante.

L’opera è tanto teoricamente ricca, e teoricamente del tutto inaccessibile (e questo è un bene), tanto l’esperienza diretta dell’opera è immediata e affascinante.

Magnoni è scultore perché toglie materia per arrivare all’opera. Ora, la materia che egli toglie è immateriale, ossia non direttamente riferibile a una sostanza naturale, ma eliminazione di ogni inutile riferimento rappresentativo o narrativo che in sostanza (sembra essere una legge alla quale egli sempre si affida) viene dall’esterno a contaminare (ricoprire) il corpo dell’opera. Magnoni ‘sveste’ l’oggetto scultoreo a tal punto da visitarne la sua essenza o entità aperta, non più chiusa in un involucro.

Quanto lontani già siamo da Brancusi: nessuna divinità da sorreggere, alcun basamento di enigmatico terrestre per sospendere l’estrema rappresentazione. Tutto per Magnoni si scava tra l’uno e l’altro, tra l’oggetto divino di Brancusi e quel piedistallo che rapisce in sospensione. Il nostro scultore indaga quell’interstizio che tutto lega, e stabilmente abita quel mondo e la mente dell’uomo. Egli vuole il luogo dove ogni rappresentazione è fuggita, lo spazio che non si mostra e che può aprirsi. Insomma Magnoni desidera e decide di indagare la dimensione umana, nell’apparizione dell’individuo, alla sua radice di presenza sola. Egli vuole regredire nell’oggettività abbandonandola per trovare la ricchezza poliedrica di un’apparizione che possa dirsi significativamente esistente, universalmente oggettiva.

La parola che raccoglie questo fenomeno è vuoto. Magnoni decide fin dalla prima opera M-Mistero che il suo luogo di ricerca sarà il vuoto, avverrà nel vuoto. Ed egli comincerà da un’oscurità totale, da un’impossibile dimensione che può aprirsi in tutto, ossia che può scavare in sé fino al suo sconosciuto limite, irriducibile, fisico più di ogni materia.

Magnoni abbandona la materia e il suo scavare, e si dedica al vuoto e al suo rivelarsi. Magnoni scopre il valore pittorico al cuore più interno e solido, lontanissimo, della scultura. Ogni sua opera o gruppo di opere non farà che chiarire, o schiarire se volete, quell’oscurità, quel concreto nero, aperto mentalmente dalla mente in eterna deriva, della prima opera. Il profilo bianco rialzato sul fondo nero in forma di circolarità irregolare richiama immediatamente le ultime opere di Lucio Fontana, i teatrini, e subito se ne allontana eliminando ogni possibile racconto di spazio narrativo.

Magnoni non pensa già più all’ambiguità della superficie, ma alla concretezza dell’entità umana dell’osservatore, ben più interessante della peculiarità di un oggetto perché esso è vivo e in azione libera. L’opera di Magnoni coincide con l’apparizione e la presenza di un individuo esistente nello spazio che lo contiene, che porta legato a sé;  l’opera di Magnoni non vuole né illudere con una finzione prospettica che viaggia oltre l’opera, né con la troppo facile provocazione del mondo che ha di fronte poiché quel mondo sarebbe immerso in una rappresentazione sociale che non offre un approfondimento sufficiente all’analisi dello spettro della presenza viva che tenta lo scultore. Nessuna provocazione, bensì analisi.

Gli strumenti geometrici usati dall’artista sono messi in un rapporto empirico senza leggi esterne, o teoriche, che egli vive solo nella prova e riprova di assemblaggio nello stretto campo esclusivo di una sola opera. È il caso di notare come i lavori di Magnoni non siano, nella loro evoluzione, prettamente cronologici, ma anzi aggregativi di temi successivamente montati e smontati, scomposti e poi ricomposti in nuova stesura, spesso di stessi elementi o assetti strutturali ma che cambiano radicalmente la fisionomia dello spazio e dell’individuo che vi si trova coinvolto. Appare come vivente anche il processo di rigenerazione caotica del suo operare artistico.

Ogni opera ha quindi un suo universo elementare, una precisa azione nello scandire e svelarsi del sistema mentale che è il Vuoto. La mente è avvicinata diversamente in ogni opera, messa ogni volta in una condizione di schiarimento diverso (di chiarimento diverso). Lo spazio trovato, nella misura mentale che offre di sé, è anche fisicamente reale, non brancusiano, non esagerato, non divinizzato. Il Vuoto di Magnoni, che potrebbe sembrare inizialmente una derivazione metafisica e quindi magniloquente e monodescrivente, è in realtà un incontro ripetuto di un vuoto sempre diverso ma coincidente e fisicamente (umanamente, mentalmente) verificabile, come concretezza di un luogo fisico. Detto in altro modo: è un vuoto con delle coordinate misurabili. E l’opera misura e l’osservatore vi entra e se ne accorge: è un’esperienza diretta. E l’esperienza è questa: quell’osservatore riconosce di essere la funzione di un’opera che lo traduce in una dimensione ogni volta diversa ma coincidente.

Magnoni lavora con lo spazio o con l’individuo e la sua presenza: in maniera separata o, spesso, combinandoli in differenti rapporti. Egli può comprimere il vuoto in uno spazio e realizzare una scultura di piani di acciaio (manipolato a patina fino a fargli perdere il contatto visivo col materiale) alternati ad altri di vuoto, in un’anti-architettura, ma solida, concentrata, al punto da equilibrare il chiudersi e l’aprirsi dei suoi vuoti d’aria, e poggiarla al centro di un pavimento, in una galleria o in un’abitazione, o in una piazza, indifferentemente, come se il dialogo che essa offre fosse tutto interiore, capace di interagire con l’esterno (da lui non pilotato) come un’entità capace di vita, quasi che la sua presenza avesse una volontà personale e spaziale da imporre al resto per liberarlo a sua volta nel vuoto dell’essere.

L’impatto delle sue opere è solo superficialmente formale. Le sue sculture o installazioni scavano più profondamente nell’essenza di una misurazione densa e dinamica, lavorando lo iato o lo stallo tra due elementi per conservarne la carica del volume temporale che esse fanno esplodere su di noi. Questo caricamento di energia che abita il vuoto, così abilmente circoscritto, lo riconosciamo trasparentemente libero e in azione come ciò che è presente biologicamente in un organismo e lo rende tale e funzionante; noi ci riconosciamo in questo progetto comune che ci coinvolge insieme alle cose del nostro mondo. Approfondiamo così l’appartenenza al nostro genere umano nell’ambiente a noi dato, che ci portiamo dietro, e che ci definisce e che noi definiamo, e lo facciamo non più immersi in una narrazione, in un racconto, ma in un’identità toccata nel suo nocciolo di senso, un’identità che, affrontata a queste profondità illuminate, ci lega in una determinazione di una stessa materia che ci convince del nostro isolamento e delle nostre possibilità.

Questa di Magnoni è una limpidezza mentale, ragionativa, deduttoria, definitoria, che non si basa su assunti dimostrati a priori, ma si conferma dall’utilizzo empirico di poche sfuggenti (stringenti) geometrie, rapporti, lunghezze, unità, che mai tradiscono l’innominabilità del tutto o dell’origine (che forse interessano marginalmente Magnoni se non come magnete di senso, di senso vitale prospettico) ma ci si avvicinano tanto concretamente da apparire vere scoperte che, intorno a quel centro impronunciabile, generano un linguaggio di persistenti nature, logiche e vive, quasi assiomi viventi dell’esperienza alzata nell’osservatore umano e partecipante del mondo al suo più evidente stato.

Oggi in campo scientifico si prova l’esistenza di infinitesime particelle misurando l’azione di altri elementi con cui essa interagisce, ed è lo stesso per il macrocosmo, i buchi neri, o la materia oscura. Ecco, Magnoni, opera la stessa verifica, facendo dell’opera una sintonia di elementi in dialogo interrotto o continuo che verifichi la concreta prova delle nostra stessa, corporea e mentale esistenza (davanti al mondo e alle cose), lontano da illusioni o credenze. Magnoni crea i legami tra spazio e uomo, verificando forse che solo tra loro esistono, togliendo ogni dubbio (o ombra) dal loro rapporto. Perché questo è oggi tanto necessario? Magnoni scopre un’energia che materializza le facoltà dell’uomo al fondo del suo più fondante rapporto, interno alla materia. Il vuoto che egli trova nei rapporti tra spazio e corpo è il sangue che scorre tra tutti gli elementi: è un Paradiso più intenso di altre prefigurazioni artistiche poiché l’energia che Magnoni indica ha una massa (e un peso) che rendono stabili gli elementi (nella mente dell’osservatore e nella sua memoria) dall’interno. Un potere rigenerativo si coglie nel risultato di questo operare artistico, misterioso come quell’iniziale opera che egli ha messo in atto, che dispone in ascolto l’uomo del potere creativo di se stesso e delle cose, dando una risorsa indispensabile fronte alle troppe incertezze che abitano oggi artisti e uomini. Magnoni lo mette in atto con la stabilità, non geometrica ma vivente, del vuoto e dei suoi significati fisici raggiunti e mostrati, che agiscono in ogni opera.

Teodosio Magnoni squadra la presenza (l’osservatore, l’individuo; il visitatore) togliendo il vuoto intorno ad essa e lasciando lì l’ombra concreta della sua nettezza: la sua posizione umana nel mondo. Egli rende la fisionomia del vuoto, già compresa all’interno dell’opera e dei suoi segnali esemplari geometrici, e il visitatore entra in quella sagoma di esistenza, perfettamente, e lì vive, per l’istante della visita, emanato in sé. L’esperienza di quello stato di presenza di sé rimane incisa nella mente, al suo servizio, immobile, squadrata nel tempo. È un tempo ipotetico, umano, mai assoluto, ma preciso, sezionante e mai definitivo. Esiste un piacere indiscutibile nel trovarsi insieme all’opera, nello stato mentale partecipativo e libero che essa reca trasportando l’osservatore in se stessa, nel suo perimetro. È un incontro solidale, inatteso, che instaura una filosofia fisica, una sorta di pensiero metabolico con essa. Siamo inscritti nella sua libertà, che non ci rigetta mai, e ci chiude in sé nel suo vuoto, che essa per noi genera. Muoversi da una all’altra – scultura, installazione che sia -, è nascondersi ogni volta nella diversa isola di uno stesso pensiero: quello dell’uomo che ragiona su se stesso e sulla sua posizione. Passare da una all’altra, insomma, senza preavviso di tempo creativo, genera al contempo una ripresa del pensiero precedente e un’inattesa sua evoluzione e approfondimento.

Non siamo davanti a un monumento equestre, all’intromissione nello spazio di una figura con la sua immagine e storia che viene a noi e a noi si impone. Stiamo invece entrando in uno spazio liberato, che produce, per le forze energetiche del vuoto messe in atto, una centralità, un fulcro vivo, che siamo noi stessi, visitatori, o osservanti, o cogitanti. Il vuoto appare da un movimento (da una dinamica) possibile, espresso o inespresso (suggerito o verificato), mosso alla sua superficie o gradualmente in esso (fino a diventare noi in diversi stadi), che costruisce intorno a sé l’opera e i riferimenti che la dominano.

La creatività di Magnoni non ha la precisione di una linea continua, diretta, come il percorso di una freccia (quasi nessun artista ne è capace), ma generativa da un centro (ignoto e sconosciuto, padre di quel vuoto che ci abita) che crea cerchi in onde risonanti (creative) intorno a sé. È quindi caotica ma precisissima e continuamente ripetuta (questa simmetria del caos, che utilizza una propagazione schiarente e semplificante, è prodigiosa, simile all’equilibrio di una Gioia). Diremmo che l’opera di Magnoni si rinnova costantemente. L’opera, nell’approcciarsi al proprio concetto, è illuminante per chi la può vivere. Ogni opera, cioè, in quell’approcciarsi diverso al medesimo concetto è illuminante per chi vi può vivere. Se l’uomo è unico nella natura per coscienza e idea, allora Magnoni tenta di concretizzare questa unità dell’uomo, avvicinarla fino a renderla percepibile. Il complesso delle sue creazioni risponde (affronta) una sola medesima fatica, e prova la permanenza di quella unicità, provano quell’eccezione naturale che è l’uomo. L’opera di Magnoni è isolante e stabilizzante, ma non c’è verità, il tentativo riuscito basta!, è scientifica… implica una visione cosmica ma senza illusioni.

L’autore non utilizza mai la curva (soltanto come parte della forma del cerchio, ma l’abbandona presto), essa è per lui già sintesi di una rappresentazione, di una cosa vista. Diversa è la retta e l’angolo che si può creare tra due rette. Una retta è rappresentazione di se stessa, intromessa nella natura, natura in sé, o non-natura, non–rappresentazione. Essa è una forma esistente e libera da riferimenti, definita in sé. Magnoni lavora sulla linea, variabile in lunghezza e in spessore, cercando in essa il variare possibile del suo mondo, variando i quali, associati a diverse linee o angoli, continui, interrotti o spezzati, genereranno tra loro piani con profondità elusive subito percepiti come presenze vuote (di vuoto) dalle caratteristiche distinte e relazionali.

La linea può essere estensione, pura e sola estensione, un non-corpo, che fisicamente esiste ma senza più spessore, per un potere concettuale che cambia la natura fisica di un oggetto in una natura concettuale altrettanto reale e diversa. Questa estensione riconosce lo spazio come esterno a sé, nei due punti estremi che toccano senza invadere il luogo circostante. Una piazza in una città può offrire il campo di questo svuotamento mentale dell’ambiente, svuotamento o anche liberazione del pieno, del pubblico, isolando (ritagliando) uno spazio dal resto del mondo. Uno spazio ampio chiuso in un’ampia sala di un museo (Karl Ernst Osthaus Museum) offre la medesima opportunità. Ma si deve fare attenzione, nell’opera di Magnoni, gli elementi sono così essenziali che un minimo cambiamento offre una rivoluzione nella rivelazione e nel comportamento di un dato vuoto. L’ambiente chiuso del museo rispetto all’ambiente aperto è appunto chiuso, stretto tra un numero preciso di pareti, e questo numero isolante è decifrato nella giustapposizione per terra di altrettanti barre di ferro. Una diagonale è tracciata e attraversa l’ambiente da un angolo in basso a un angolo in alto con un elastico bianco. Il peso del luogo è qui rintracciato con tale insistenza di separazione che la gravità del vuoto si esaspera e carica verso il basso, sul fondo, la sua stabilità. Più denso è qui il vuoto, come in una scultura scavata nella terra, un bunker di vuoto, un bunker di vuoto aperto nell’universo, solitario, resistente, indipendente: l’uomo vi entra come in una casa priva di coordinate.

Magnoni ragiona sul posto, un’isola, una scultura di lastre squadrate e adiacenti, piatte sul pavimento, che formano una sola area raccolta su sé. Magnoni isola una concretezza dello spazio e ne fa luogo dello spazio, come possibile d’azione, ed è un nulla dinamico, vuoto e mitico, che si staglia sopra di lui allontanando fisicamente lo spettatore e legandolo per il solo mezzo della vista. Magnoni in queste opere utilizza il desiderio primario dell’uomo di conquistare e abitare creando un’essenza scultorea che sfugge al contatto diretto nel momento dell’avvicinamento fisico (proiezione mentale e cognitiva) nascondendosi nello sguardo, imprigionandosi in esso, totemicamente assente.

Il rovescio di questa esperienza Magnoni la offre in una ‘scultura’ che abbandona ogni fisicità e che esiste solo in quanto parole e frase. Sempre a terra, scritta in stampatello al centro della stanza: “IO SONO LO SPAZIO / DOVE IO SONO”. Una domanda: È l’uomo che entra nella sala e, leggendo la frase, è cosciente di essere e di innalzarsi in quanto scultura, un’anti-scultura forse, o una super-scultura, nel proprio pensiero artificialmente chiamato a partecipare a se stesso e, tanto efficacemente dimostrato nella mente, che il corpo-pensiero si costruisce nel luogo in un improvviso inaspettato? Sì, accade. L’arte è l’evento della persona che si riconosce e che davvero è creata in quanto tale lì in quel momento. Presa di coscienza di essere dal nulla, corpo, un corpo isolato nel pensiero che lo accompagna. E non siamo che amplificazione di questo isolamento (abbandono?) ma sorprendentemente noi stessi, davvero noi stessi, chiamati artificialmente a riconoscerci. L’opera ha questa presenza nella necessità d’esistere di un uomo e per farlo abbandona il suo ‘corpo’ (la vita è un’azione mentale persa nel vuoto, ma significante? Forse sì.). L’opera d’arte vive per riconoscenza (riconoscere), e senza corpo nessun oggetto può essere riconosciuto, nessun oggetto può essere più frainteso: o quella frase esiste dentro lo spettatore o nessuno dei due esiste.

L’opera è del ’79 e le isole o Spazio dell’icona dell’85: periodo non breve, che segna una rielaborazione non immediata, non diretta, bensì raggiunta diversamente da un’inedita prospettiva che deve essere ancora una volta percorsa integralmente per generare un ciclo indipendente di lavori. Sono vere e proprie scoperte, conquiste, che brillano di luce propria. Sembra però l’opera più concettuale di Magnoni, quella scritta, un perno su cui si può, forse tracciare un’evoluzione decisiva, come di un prima e dopo. Le sculture ‘Corpo-Luogo’ che verranno negli anni successivi, negli anni novanta fino al duemila e oltre, dei poligoni elaborati e svuotati di massa, sembrano, nella loro concentrazione all’interno di uno spazio naturale, nella loro solidità vuota, come rispondere e costruirsi su quell’assunto concettuale scritto, individuarsi fisicamente vuoti da quell’assenza fisica esclusivamente mentale. Non ci sarebbe quello spazio svuotato, tutto contenuto in un’unità separata (isolata) nel luogo naturale, scandendo l’ambiente circostante in un deserto logico, senza quel raccoglimento sdoppiato unificante di una stessa frase stesa su un pavimento nel centro di uno spazio e un luogo che si cancellano a vicenda.

Penso al metallo lumescente irradiato di luce come dentro a una superficie di materia nuova, o diversa, annullata, e mi vengono in mente alcune sculture posteriori, eseguite in nero granulare opaco su alluminio, poligoni pieni, bifrontali, alzati da terra, simulazione di una persona, di poco più larghi e meno alti, veri e propri buchi neri nello spazio, o già comparsi nel vuoto creato da altri lavori precedenti, che ringiovaniscono la presenza facendogli perdere ogni età di relazione avvenuta, e stimolando l’attimo che separa due istanti di tempo, e che lì scava una preziosa reminiscenza. Si ritorna al nero della prima opera senza negarlo, ma dinamicizzato in un suo altrove. Sono opere interamente nere, assorbenti, riflettenti questo assorbimento, e per questo vive, che rimandano questa capacità di assorbire l’ambiente. Siamo in un campo Culturale, didattico dell’essenza in atto: natura e Natura si compenetrano. Il visitatore è un ospite.

Ma come rispondere alla domanda che avevo posto? C’è davvero uno spartiacque nell’caos operativo e benefico di Magnoni? Subito dopo quella scritta (prima delle ‘Isole’) alla Biennale del ’79 egli dispone dei segmenti neri tracciati in lungo su grandi trapezi bianchi disposti ‘caoticamente’ a distanza su un’ampia parete. Qui la linea strutturale che negli anni sessanta era più larga in banda e continua attraverso angoli e false dimensioni ora è essenziale, non architettata, aperta a larghi spazi reali che si intromettono in essa articolando relazione teoriche di spazi Architettonici, architettati. L’azione dell’artista ora tende a svelare la dimensione mentale che si costruisce nell’assenza, verso il costruire (ricostruire) e un abitare, aprendo immediatamente in progetto il vuoto e subito richiudendolo (con le opere successive più piccole, da parete di galleria) in un riavvicinamento tattico di diversi elementi strutturali, che lì richiusi, minimi per dimensione e numero, richiamano l’Idea, un’attenzione mentale, in una sintesi delle potenzialità di un’immagine, che è al contempo punto di fuga astratto e tangibile (scultorea, scolpente) evidenza. La mente si adatta a un serio ‘ludus’ e si stringe nella potenza avvenirista dell’idea e della visione che la abitano.

Non ho ancora risposto. Nei primi anni settanta Magnoni sembra essere interessato a una misurazione, intesa in ogni potenzialità analitica, rispetto allo spazio dispositivo, all’identità degli elementi, alla progressione di una natura-logica. Potremmo dire che cerca di aprire lo spazio dell’opera per offrire soltanto, del suo corpo, le coordinate. Facendo così si attiva sempre un diverso vuoto con un corpo ancora analitico e non fisico come accadrà in seguito proprio dopo la famosa scritta.

Forse allora, a questo punto, sembra chiara l’esistenza di un principale percorso di svelamento, carnalizzazione e identificazione, del vuoto, del suo corpo, e delle sue implicazioni nell’imbeversi della materia umana, che l’uomo (l’osservatore) coglie vivente in sé, come prima sua materia costituente, che lo identifica e lo intellettualizza.

Quando si entra nella prima stanza della galleria (Anna Marra Contemporanea, Roma) a destra sono disposti a parete tre elementi. In alto, una barra di alluminio orizzontale, svuotata all’interno, è un’unica superficie curvata sui tre lati, e non chiusa agli estremi così da mostrare la sua aerea rappresentazione annullante e stabilizzante. Sotto di essa due grandi aree squadrate distanti tra loro sospendono (una è dello stesso alluminio della barra e l’altra è dipinta di un nero compatto e opaco) la superficie della lastra forse cinque centimetri dalla parete, comunque di minore elevazione della barra.

L’opera appare dilatante e maestra, occupante uno spazio e indicante con chiarezza il proprio segno al pari delle Maestà di Duccio. C’è però qui un maggiore rapporto con lo spazio circostante (non più solo lasciato spettatore dello spettacolo dell’opera), dilatando la sua presenza nel volume dello spazio (dell’aria, del vuoto) che si para come frontalità davanti alla parete e della parete stessa. Ecco che l’opera occupa una profondità fatta di immateriale più che di materia, di vuoto e di svuotamento e non sembra più un oggetto giustapposto a un muro.

È una forma rappresentante, una forma prima, presente. Lotta per apparire nel vuoto di una non-superficie e ha bisogno di quella sbarra orizzontale che instaura l’accadere nella presenza. Le due figure, una di alluminio e l’altra nera, isolate e indipendenti, si equilibrano per mezzo della misurazione mentale di quello spazio vuoto che le divide e che è la sbarra a creare e mostrare, a permettere. Opposte per carattere, due ‘mondi’ o due spazi si connettono. Il loro dialogo e una radiazione della presenza.

La Storia che esse creano è silenziosamente epica, scavata nell’universo che si svuota ed emette una dinamica narrativa azzerata. L’esperienza è visiva, ed è traduzione della conquista del visibile: siamo allora ancora una volta all’interno di un uomo presente che indaga il potenziale della sua facoltà visiva o vedente. Se si toglie la rappresentazione al quadro, se si toglie quello che vuole essere visto, resta la presenza residua di ciò che esiste nella vista dell’uomo-osservatore. Ed egli, davanti a questa opera, non sta al cospetto di una teoria, ma a una reale esperienza che nega se stessa visivamente e poi si rivela in quanto tale, fisicamente. La fisicità dell’opera, davvero semplicemente ed elasticamente, supera la barriera della materia del suo materiale e della sua disposizione in una realtà materica, e subito si sospende e si rivela accecante e nuova, come bioritmo segreto dell’immagine e vasto come l’appropriamento di una Storia, ossia di una dinamica storica senza avvenuta definizione. È, in effetti, l’esperienza di questi tre elementi in un unico campo aperto, nella loro sospensione aerea come in una radice pittorica, non risoluzione di un problema costruttivo ma illustrazione di una dinamica compositiva che tocca quasi (sfuggendo sempre) l’archetipo di un racconto.

L’uomo-ossevatore è attirato, spinto e respinto dall’opera come in una pulsazione gravitazionale delle intenzioni, in cui c’è un affinamento delle parti, completamente sedotto da quella presenza antidimensionale.

C’è un inquadramento in quest’opera, nel vuoto raccontato che la ingloba, che la divide intensamente dallo spazio circostante: la sua frontalità è assoluta e sembra immobilizzata in una cornice di vuoto.

Ben diversa, ulteriore, è la seconda opera a parete, e forse per questo posta immediatamente in fondo all’entrata, a sinistra della prima. Due elementi: una barra di alluminio inclinata verticalmente e una sola figura eretta dipinta di un rosso uniforme e forte. Siamo entrati nello spazio che ci ingloba ormai (lo siamo anche noi che guardiamo) di quella profonda frontalità. Gli orizzonti di quella prima frontalità sono passati alle nostre spalle e la scultura fluttua in quel campo, fluttua come noi. In questa fluttuazione il campo geometrico si accende e la figura quasi esce da sé o scende in sé azionando la sua presenza. Siamo in un racconto quasi volontario: la presenza, all’aumentare del vuoto tridimensionale che la circonda, la fa agire. C’è una perseveranza raggiunta in quel rosso che conquista l’invenzione di un’idea e penetra in un’autorità mentale. Siamo sempre noi in noi stessi. La barra sfugge in una prospettiva che ne riequilibra la posizione trasparentemente in un vuoto abitato visivamente che la riconduce in segnale di spazio stabile e dinamico. Lì la figura si staglia, alta e rossa, presente in sé e agente. Lo spazio dell’opera e il suo vuoto attivo ci ingloba e ci rende artefici e partecipi dell’evento al quale assistiamo. Una conquista attiva dello spazio mentale.

Se nella prima opera assistiamo alla profonda bidimensionalità, nella seconda (dentro quella prima, in un contatto ravvicinato) stiamo entriamo nella tridimensionalità di un evento, quasi uno scontro pacifico. Al ravvicinamento con la figura, quasi in cerca di contatto identitario, l’orizzonte intorno all’uomo-osservatore si allontana. Scultura e immagine si alimentano l’un l’altra e Magnoni sembra mostrare come l’una contenga l’altra e quell’altra a sua volta ritrovi la prima, in una dinamica di rapporti cambianti e ulteriori.

In questi ultimi lavori lo spazio tra i diversi elementi fa apparire il vuoto con ancora più densità, e talmente denso da poter essere assimilabile a una materializzazione pittorica che rimane al contempo più puramente scultorea. È un vuoto guardabile, sondabile, quasi indagabile, quasi rispondente, parlante!

Non siamo ancora ascoltatori, ma ricettori sì, pienamente, nel godimento di una ricchezza che ci riporta con la mente alle grandi rappresentazioni barocche o, ancora meglio, trecentesche, ridotte all’impatto evocante che le muoveva e creava. Qui si ascolta (visivamente come una propagazione sonora, vivente) lo spaziare dell’immagine che si ferma dentro l’incognita del tempo. Siamo ancora noi, l’uomo-osservatore, l’obbiettivo (il risultato) di queste opere, quel tempo che è in noi insondabile e che ci erge (ci scolpisce), ci staglia sullo spazio, come se il corpo avesse una finta aspettativa su sé, pronta ad aprire il vuoto già aperto intorno a noi, per cercarne un’indecifrabile complessità esistenziale, che rimarrà sola nostra essenza temporale e significativa testimonianza. Il tempo è il vuoto dell’essere umano ed esso splende svuotandolo e contrapponendolo al mondo. Queste opere e più in generale l’intera opera di Teodosio Magnoni sembrano preparare l’uomo alla supernova di sé, suggerire al mondo un nuovo spazio nel coagulo della menti.

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  • La mostra di Teodosio Magnoni è in corso alla Galleria
    annamarracontemporanea ed è prorogata sino al 14 settembre 2013
  • Sede: Via sant’angelo in pescheria, 32 00186 Roma
  • tel. +39 06 97612389 – info@annamarracontemporanea.itwww.annamarracontemporanea.it
  • La galleria resterà chiusa dal 1 agosto al 2 settembre

 

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Jacopo Ricciardi è nato nel 1976 a Roma, dove vive e lavora. Vincitore di diversi premi, ha pubblicato sette libri di poesie - Intermezzo IV (Campanotto, 1998), Ataraxia (Manni, 2000), Atòin (Campanotto, 2000), Scultura (con Teodosio Magnoni; Exit, 2002), Poesie della non morte (con Nicola Carrino; Scheiwiller, 2003), Colosseo (Anterem, 2004), Plastico (Il Melangolo, 2006), Scheggedellalba (con Pietro Cascella; Cento amici del libro, 2008) - nei quali il suo modo di procedere è “vasto quanto un luogo poiché lì è qui ma quando/ci si avvicina al luogo qui e lì già accade tra la/parola e l’universo che si toccano”. Ha ideato e curato dal 2001 al 2006, per Aeroporti di Roma, il progetto culturale “PlayOn” e ha diretto l’omonima collana presso Scheiwiller. Ha pubblicato due romanzi, Will (Campanotto, 1997) e Amsterdam (PlayOn, 2008). È presente nell’antologia “Nuovissima poesia italiana” (Mondadori, 2005) curata da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi.

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