L blue N black I green M orange K violet: Jonathan VanDyke

Mettere insieme Jackson Pollock e Ad Reinhardt in una stessa opera non è facile. E’ come interpellare due elementi estetici astratti ma in condizione opposta, è voler dire: Joseph Albers e Franz Kline, Willem De Kooning e Barnett Newman, o semplicemente, per capirci, Mondrian e il più radicale degli espressionisti. Ecco, ma Jhonatan VanDyke questo riesce benissimo, e gli riesce anche di farli convivere con la body art. Un compito arduo che però sembra la soluzione di tutto.

VanDykee, protagonista di una sessione dei Martedì Critici alla Temple University, è l’artista che con il suo ultimo lavoro ritorna alla galleria Unosunove di Roma (http://www.unosunove.com/ e in mostra fino al 14 novembre prossimo).

Ci sono cose differenti e insospettabili dentro la sua opera, che sono molte di più di quelle che si diranno qui, che si recepiscono all’impatto ma che scaturiscono incessanti a ogni livello dell’analisi, arrivando alla fine di un percorso notevolmente lungo a includere una riflessione sul concetto di paternità pittorica, che resta evidentemente una sfida immane dopo Warhol.

Ma andiamo per ordine.

Il metodo, come nascono le sue tele.

VanDyke si avvale della collaborazione di due danzatori, Rafael Botana e Bradley Teal Ellis, ai quali consegna degli involti di tessuto imbevuti di colore sui cui essi si muovono liberamente. Saranno le camicie che indossano così processate, macchiate, improntate dal colore a costituire il materiale per le sue tele. Assemblate con questo tessuto, cucito e ricostruito in splendidi lavori quasi di intaglio, che si riferiscono, in questo caso specifico, non solo esplicitamente ai moduli geometrici di un pavimento – visto a Roma in un palazzo storico di un antico rione e fotografato – ma sembrano quasi avanzare un collegamento alla nuova classicità e al modernismo e che per via solo del tutto impressionistica possono perfino essere associate alla pratica del opus sectile, di una ascendenza ancora più remota quindi. Eppure, resta la collaborazione con i ballerini a essere focale per comprendere appieno VanDyke. Questo rapporto infatti è voluto, cercato, per fugare un paio di pregiudizi precisi: uno, che l’artista con il gesto diretto sulla tela sia l’unico e il solo possibile creatore dell’opera; e l’altro, che l’intangibilità assoluta della performance è inevitabile.

La sua idea, infatti – ed è questo l’aspetto più speculativo del suo lavoro -, è quella di poter rendere la fugacità della danza, l’aspetto effimero del movimento, in un oggetto finale duraturo. Il disorientamento che scaturisce da questa negazione di paternità esclusiva, è parte essenziale del lavoro, tanto che le opere diventano processo, documenti, oggetto e tutte queste cose insieme.

La mostra.

Nemmeno l’ambiente può essere disgiunto dal lavoro dell’artista. E’ questa la prima riflessione che scaturisce nell’osservazione diretta dell’allestimento. Il lavoro infatti si presenta come un insieme in rapporto con lo spazio che lo ospita, e lo fa diventare un organismo. Le tele sono montate su una intelaiatura avanzata rispetto al fondo che permette di vederle anche da dietro. Perché lo spazio, appunto, non è neutralizzato solo come elemento, come geometria contenente, ma anche come categoria contenuta e costruttrice. Quindi la sala, i muri, le intelaiature, le tele e perfino il loro retro, sono tutti piani. Piani cercati, chiamati dall’artista consapevolmente, ai quali è chiesta una integrità costitutiva, dettata dal continuo rimando di connessioni, che trasformano le superfici, tutte le superfici, in un intenso campo di forze fra loro in equilibrio. Allacciati come corpi, appunto, i piani, sono in un lavorio incessante eppure statico, che porta a una strana bipolarità tra la stasi e il suo opposto. Il movimento e l’assenza, che inizia già sul pavimento, un pavimento a losanghe bianche e nere, rigerminato, sottratto alla sua Storia nella stessa grammatica ipnotica, geometrica, vagamente optical, che viene incontro dentro queste opere e sembra sostenerne a pieno le ragioni di fondo: la struttura, il tessuto, i margini, l’architettura. Lo spazio si ripercuote nel lavoro di cucitura, che presenta un verso e un rovescio abbiamo detto, – le parti retrostanti delle tele sono cucite con stoffe appartenenti a vecchi vestiti della madre, biancheria da letto, e presentano dei ricami –  ma lo stesso criterio si ripercuote nel modo in cui sono state pensate, pazientemente composte, in un alveare di moduli esagonali e fasce parallele, sporcate da una vena informale evidente, materica, gestuale, segnica uno pseudo dripping, o Mark Making, ma che si nega mentre si fa; perché è  frutto di quel processo precedente della danza e dei danzatori, in una memoria quasi muscolare di questo passaggio. Sono loro i segni che vengono cuciti in una trama di senso, è questo il tessuto di cui sono fatte le sue Shirts Painting, per finire posizionate sulla leggera intelaiatura di legno, quasi trasparente in una sorta di sospensione quasi onirica. Il suo lavoro è dettato da una continua elegante infrazione di categorie, fra la pura razionalità e l’espressività più disfatta, fra la mimesi e il gioco, la finzione e la meditazione. In una sorta di cicatrice, di traccia del proprio passaggio.

VanDyke ama definire il suo un lavoro direttoriale. Il titolo della mostra si rifà a un sonetto di Arturh Rimbaud, Voyelles. Dietro ogni tela vi è una fotografia.

 

Jonathan VanDyke
L blue N black I green M orange K violet
Photos by Giorgio Benni

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Vive a Roma, specialista in Storia e Arte Contemporanea presso la Sapienza di Roma, ha conseguito un master e attualmente si occupa di progettazione europea nell’ambito del sottoprogramma cultura, con specifiche competenze nel programma “Creative Europe”. Ha collaborato ad alcune riviste culturali, scritto saltuariamente di politica per alcune testate on line.

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