L’universo tormentato di Houellebecq al Palais de Tokyo

Clément, il cane di Houellebecq, protagonista dell'esposizione sin dal manifesto

Ricordiamolo subito: Michel Houellebecq è prima di tutto un poeta. Poi anche romanziere, saggista, attore, critico, filosofo, cineasta, performer e artista. Solo così possiamo comprendere un po’ la vastità e la complessità della sua esposizione Rester vivant al Palais de Tokyo.

Dice l’autore di sé e della sua opera nel catalogo che accompagna l’esposizione:

«Quando Jean de Loisy (presidente del Palais de Tokyo e curatore della mostra, ndr) mi ha proposto di consacrare una mostra alle mie fotografie, ho visto immediatamente questa occasione come un ritorno alla poesia. Nell’esposizione c’è una sorta di narrazione perché le sale si susseguono l’una alle altre un po’ come fossero una raccolta, dove le poesie, messe in un certo ordine, producono una narrazione anche se molto più vaga di quella di un romanzo. Mi considero più come un produttore di immagini che come un fotografo. Un fotografo tenta di catturare il reale, mentre io ricerco le mie ossessioni e le mie fantasie. Il mezzo può essere la foto da sola, o la foto mescolata a un testo o la sovrapposizione di più foto.»[1]

Esattamente la sensazione che si ha varcando la soglia dello spazio espositivo: quella di entrare in una narrazione; di fare un viaggio nella testa di Houellebecq dove la realtà e la finzione si mescolano fino ad essere irriconoscibili. Ci accoglie un’immagine enigmatica e non ben definibile: può sembrare un tramonto, o un’alba, su cui campeggia la frase «Il est temp de faire vos jeux».[2] Entriamo in un territorio di dicotomie presentate a mo’ di provocazione e scommessa. È tempo di vivere o di morire? Il cammino che stiamo per intraprendere porta alla perdizione infernale o ad una purificazione spirituale? Mission #001, una foto in bianco e nero dal taglio di una ripresa aerea militare,  ci invita a continuare anche se non abbiamo alcuna possibilità di successo. Houellebecq ci avvisa che entriamo a nostro rischio e pericolo in uno spazio inteso probabilmente come un’Estensione del dominio della lotta.

Si snoda quindi davanti ai nostri occhi un’immenso percorso espositivo articolato in ben 18 sale. Fotografie, video, installazioni e scenografie che mettono in luce il Houellebecq fotografo, poeta ma anche curatore, in quanto lui stesso ha invitato altri artisti ad esporre nella sua mostra. Una sala è stata affidata a Renaud Marchand che propone due installazioni tra cui Daniel et Esther: la rappresentazione dei corpi chimici dei due personaggi principali del romanzo La possibilità di un’isola. Cilindri d’acqua e tutti gli elementi chimici che occorrono per la fabbricazione dell’uomo nuovo sono in bella vista su un tavolo insieme alle pagine strappate del romanzo. Un’altra sala è interamente dedicata ai dipinti di Robert Combas — artista presente nel suo romanzo La carta e il territorio — realizzati ispirandosi alle sue poesie. Da questa si giunge alla sala fumatori, immancabile vizio ed ossessione di Houellebecq, in cui si può fumare davvero liberamente: al suo interno un juke-box in cui è possibile selezionare alcuni brani delle sue poesie. A Maurice Renoma, stilista e fotografo, è invece affidata la scenografia della sala dell’erotismo in cui troviamo le fotografie delle donne amate da Houellebecq. Da segnalare ancora nel percorso un salone della lettura e la sala dedicata al turismo di massa. In quest’ultima è evidente l’atteggiamento critico di Houellebecq verso il turismo di massa oggi sempre più inconsapevole e di stampo più consumistico che culturale.

Eccezion fatta per la sala dedicata all’erotismo ci appare ben evidente il fatto che non ci sono esseri umani nelle altre fotografie presentate in mostra. Principalmente assistiamo a paesaggi, in gran parte spagnoli e francesi, di cui si è servito molto spesso anche per la stesura dei suoi romanzi. Il motivo dell’assenza dell’uomo è forse da trovare nella forte convinzione dell’autore de Le particelle elementari che siamo destinati all’estinzione. Una convinzione che si è formato grazie alla lettura di H. P. Lovecraft e che si è rafforzata poi nel tempo. La ritroviamo, ad esempio, ne La Carta e il territorio: nel finale preconizza un mondo in cui non ci sono più esseri umani e le opere architettoniche da essi erette sono ormai interamente ricoperte dalla vegetazione. Analogamente vediamo come nella fotografia di Almeria in Spagna gli edifici sono interamente ricoperti dalla polvere. La natura prenderà sempre il sopravvento sulla costruzione umana.

Ovunque respiriamo un’aria di decadenza. Anche nelle foto delle mucche, animali da lui adorati, al pascolo. Così come nelle altre fotografie dei parcheggi dei centri commerciali, dei caselli autostradali o dei sobborghi francesi. È la Francia che Houellebecq meglio conosce perché l’ha abitata e l’ha vissuta a fondo: quella delle banlieues. Paesaggi desolanti accompagnati sempre da iscrizioni estratte dalle sue poesie o dai suoi romanzi. In France #009 alle foto del sobborgo di Avallon è affiancata una frase presa dal suo ultimo romanzo Sottomissione: «Je n’avais, pas davantage que la plupart de ces gens, de véritable raison de me tuer.»[3]

Pensiamo ormai di aver afferrato il senso globale della mostra fino a quando, quasi alla fine del percorso, arriva quello che non ti aspetti: Clément. Una sala intera dedicata al suo cane: un Welsh corgi dal pelo bianco e rossiccio morto nel 2011. La sala, in cui si respira un’aria di estrema intimità, secondo il curatore Jean de Loisy, è un «simbolo dell’amore assoluto». Ma, a onor del vero, tutto ha l’aria estremamente kitsch. Osserviamo tantissime fotografie di Clément, i suoi ritratti all’acquerello di Marie-Pierre Gauthier, ex compagna di Houellebecq, e una enorme vetrina in cui sono raccolti i documenti ed i giochi preferiti del cane. Accanto un diaporama di foto dell’autore con il suo amato cane accompagnate dal suono di A machine for loving di Iggy Pop. I fan dello scrittore non potranno fare a meno di riconoscere la figura del bastardino Fox in La possibilità di un’isola: «L’amore è semplice da definire, ma si trova di rado tra gli esseri. Attraverso i cani rendiamo omaggio all’amore e alla sua possibilità. Che cos’è un cane, se non una macchina per amare?»

Termina l’esposizione Inscription #012, una fotografia di un paesaggio desolato con sovrimpresso un verso di una delle sue prime poesie «Nous habitons l’absence».[4] Un’immagine emblematica e, a nostro avviso, riassuntiva dell’inquietudine filosofica ed esistenziale di Michel Houellebecq: viviamo ciò che è destinato a non esserci più.

Si conclude con questo messaggio sconsolante un ricco viaggio nella narrazione delle ossessioni e delle fissazioni di questo personaggio misantropo e pessimista, però mai contagioso: tutto ciò che esce dalla sua mente è infatti sempre presentato con una certa dose di sarcasmo e d’ironia, perfino di comicità, che addolciscono e conferiscono leggerezza a tutto questo suo mal di vivere. Praticamente in mostra si ritrova lo stile che ha sempre contraddistinto Houellebecq fin dall’inizio della sua carriera. Fin da Rester vivant, il suo primo saggio intorno alla sofferenza del 1991, oggi titolo della mostra, in cui dichiarava: «Un poeta morto non scrive più. Di qui l’importanza di restare vivi.»

Note

Info mostra 

Note

1.  – Michel Houellebecq, Rester vivant. Palais Magazine 23. Ed. Flammarion e Palais de Tokyo (trad. mia)

2.  – È tempo di fare il vostro gioco.

3.  – Non avevo, non più della maggior parte di loro, veri motivi per uccidermi.

4.  – Noi abitiamo l’assenza.

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Massimo Rosa è curatore d’arte ed ha diretto alcune gallerie italiane. Ama l’arte contemporanea e la filosofia. Attualmente vive a Parigi.

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