Tim Steiner e Wim Delvoye. Storia di tatuaggi, di un’opera d’arte e dell’uomo che lo è diventata

immagine per Wim Delvoye
Algoritmo 2015, Civita di Bagnoregio (VT) foto di Alessio Jacona

Nel 2014 una mia amica mi invia su whatsapp le foto di un uomo tatuato, con le spalle nude e un grembiulino da cuoco. Penso: o è una performance o la mia amica è finita ad una cena di scambisti. Per carità nulla di male, ma visto che lei e suo marito non mi avevano mai parlato di certe loro passioni, opto per l’ arte!
Così ho conosciuto Tim Steiner, arrivato in Italia a trovare Luca e Gabriela Gansser. Lui artista e lei organizzatrice di eventi culturali, entrambi  svizzeri proprio come Steiner.  Curiosamente, i Gansser non incontrano Tim per la prima volta in Svizzera, ma nella Repubblica Democratica di Timor Est, nel sud est asiatico. Era il 2004 e loro dirigevano una scuola d’arte, la Art Moris – free art school.  Steiner capitò per fare un’esperienza, e lo ospitarono per tre mesi.

immagine per Wim Delvoye
Algoritmo 2015, Civita di Bagnoregio (VT) foto di Alessio Jacona

Poi i Gansser per qualche strano caso della vita, decidono di venire a vivere nella campagna viterbese, e grazie ad un intreccio di amicizie, vengo a conoscenza della loro storia e li incontro. Fu allora che vidi per la prima volta l’opera:  Tim 2006-2008 (pelle tatuata) in prestito dalla collezione Reinking – Amburgo/Germania.  Cioè un’opera d’arte, anzi il supporto di essa in carne ed ossa.

Provo a spiegare meglio.

Nel 2006 Tim Steiner era amico di una ragazza che lavorava in una galleria d’arte di Zurigo, la quale un giorno gli dice: “Wim Delvoye sta cercando una tela umana”.

Delvoye è un artista Belga che sin dagli anni ’90 inizia una ricerca estrema e provocatoria, definito anche, uno degli enfant terrible dell’arte contemporanea.  Il suo lavoro iniziò ad avere una risonanza mondiale,  quando nel 1997 si mise a tatuare maiali. Prima negli Stati Uniti e poi in Cina, dove costruirà un Art Farm. Immaginate, una fattoria con anestesisti in camice bianco che sedano maiali per poi farli tatuare da altri professionisti. Una volta morti (di morte naturale), i suini vengono imbalsamati oppure scuoiati per esserne vendute le pelli, a caro prezzo. Ecco, sento già le urla di qualche animalista che non conosceva Delvoye, ma questo è.

Come se non bastasse, negli anni 2000, realizza la sua Cloaca: un’opera che riproduce l’apparato digerente umano, dall’inizio alla fine, con tanto di defecazione, che viene poi venduta a cifre incredibili in contenitori trasparenti sottovuoto. Roba che il mio amato Piero Manzoni almeno la metteva (forse) in scatolette di metallo, quindi non visibile.

Dice Delvoye in un’intervista:

“…perché voglio fare qualcosa che la gente chiami  Arte”  

Dissacrazione forse, ma con una grande ricerca non nel concetto, ma alla perfezione del racconto nei suoi lavori. E anche se non sembrerebbe, tutto fatto con molto rispetto per l’altro (di qualunque specie sia).

In Wim Delvoye esiste un dualismo costante su tutto, tema che ormai è entrato anche a far parte integrante della vita di Steiner.

Infatti, grazie l’intercessione della sua amica, Tim accetta di essere tatuato sulla schiena da Matt Powers (esecutore per Wim Delvoye). Il lavoro di Power dura per circa 2 anni, con 40 ore complessive di incisione tattoo: per questo l’opera si chiama Tim 2006- 2008.

Da quel momento l’esistenza di questo giovane, ma consapevole uomo, cambierà completamente: in maniera progressiva.

Tanto per cominciare, la sua schiena non è più di sua proprietà: un collezionista, Rik Reinking, l’ha comprata e quando Tim morirà passerà direttamente a lui (o chi per lui) e verrà incorniciata. E qui torniamo ai maiali, perché il procedimento  è esattamente lo stesso, tanto più che il tatuaggio di Tim è lo stesso di  Silvie (maiale ormai imbalsamato).

Poi Tim ha iniziato a girare il mondo per esporsi, seduto, spalle al pubblico, immobile per ore. Credo che mai avrebbe pensato di stare su una sedia rossa di velluto dentro il Louvre a Parigi, o al Tinguely Museum di Basilea, davanti a centinaia di persone pronte a farsi un selfie con lui.

Ma la grande trasformazione è arrivata, da quando passa 6 mesi l’anno in esposizione al Mona di Hobart, in Tasmania. In una delle sue pause europee, poco tempo fa lo rincontro e gli faccio qualche domanda.

Tim, mi sottolinei sempre il fatto che non sei un performer, ma semplicemente il supporto temporaneo di un’opera d’arte. Ma questa che per te è diventata una missione, come la stai vivendo?

Per me è un privilegio, quello che sto facendo, stare fermo per molto tempo, mi permette di pensare molto. Anche se il dualismo in cui vivo costantemente, mi dice che la cosa più dura della mia vita, è proprio il non fare niente. Ho rispetto per quello che è il mio compito in questo mondo, e sono in un continuo confronto personale, intimo. Mi chiedo spesso cosa mi succederà tra 10 anni e sento i cambiamenti del mio corpo, in maniera diversa dagli altri.  Ho imparato a scandire i miei tempi, ed i miei ritmi. Stare in mostra, non è una cosa semplice.

Come? Raccontami una giornata tipo quando sei al Mona.

Vivo dentro il museo, senza mezzi termini, come una vera opera, con la differenza che io sono un uomo. Mi alzo alle 6 di mattina, prendo un caffè e inizia la concentrazione, alle 9,00 mi preparo e inizio ad espormi. Solo una brevissima pausa per andare in bagno e alle 16,00 finisco,  faccio un po’ stretching e poi via a correre. Ho capito che il cibo e la digestione non mi aiutano nell’esposizione e così mangio una sola volta al giorno alle 22,00. Ora ho trovato il mio equilibrio e la giusta preparazione. Stare così tanto immobile, mi compromette due aspetti da tenere a bada, quello fisico e quello psicologico. Quando sono lì, dopo i primi venti minuti in cui sono seduto su quel cubo, le gambe iniziano a fare malissimo, e combatto contro il mio corpo, che in genere cerca di piegarsi da una parte. In genere mi ci vogliono dalle 2 alle 3 settimane per ambientarmi. Tenere la schiena dritta e ferma è la prima cosa. Dopodiché acquisisco sicurezza e riesco a controllare il mio corpo e la mia testa, poi anche il pubblico dietro di me, senza neanche guardarlo. Prima per isolarmi mentre sono in mostra, usavo la musica che ascoltavo con l’auricolare, cioè sono stato capace di ascoltare 6mila volte la stessa melodia, ora posso fare anche senza. In Danimarca invece, ero in una sala di un museo dove le luci si accendevano solo quando entrava gente. Come una scultura o un quadro appeso alle pareti, i sensori non mi leggevano come presenza. Quindi rimanevo al buio per un po’ e poi all’improvviso,  arrivavano luce e persone. Un’emozione diversa da gestire, anche questa. Era tutto così  difficile, ma poi ho capito che non è niente di eccezionale, possiamo farlo tutti, basta volerlo. Nel mio paradosso costante, l’arte e la bellezza coesistono con sofferenza. Ho anche deciso riprendermi i miei spazi, da due anni infatti non ho  più un cellulare e non sono sui social, i miei contatti sono solo tramite mail o skype. Ho l’essenziale, mi sono tolto delle cose, ma dall’altra ho acquistato più serenità nella vita.

Il tuo rapporto con Wim Delvoje?

La mia schiena è una sua opera, sono l’unico essere umano tatuato da lui, e penso, parlo, mi muovo,  per questo credo non farà più altri lavori umani. I maiali non parlano.

Ormai Tim vive questa sua storia, in maniera molto seria, rigorosa e quasi religiosa, lui è Tim 2006-2008 sempre. Ma quando si mette la maglietta, allora lì in quel momento, ritrova la sua libertà.

In Italia, oltre all’esposizione privata a casa dei Gansser, è stato ospite e quindi esposto, in una sola occasione  a Civita di Bagnoregio (VT), durante il Festival Algoritmo, nel 2015.

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Serena Achilli, studiosa appassionata d'arte contemporanea, è curatrice indipendente e direttore artistico di Algoritmo Festival. Scrive per raccontare la propria contemporaneità cercando con cura pensieri e parole. Ha un Blog in cui c'è tutto questo e altro ancora.

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