Più Libri Più Liberi #10. La rotta del Vascello delle Meraviglie attraverso la scena di oggi. Con il timone di un critico consapevole

Mariano Aprea, Marcantonio Lucidi e Neri Marcorè

«Cosa scriveresti di me, dovendo fare il mio elogio? Non me lo domandare, signora, io non sono altro che un critico».

Con la risposta di Iago a Desdemona Marcantonio Lucidi imbarca il lettore sul Vascello delle meraviglie, pubblicato da La Lepre, a cui danno forma gli ultimi cinquant’anni di teatro italiano. Un vascello che fa la spola sui palcoscenici romani – dall’Argentina all’Argot passando per il teatro dell’Orologio – sui quali, spiega, «è passato tutto». Non senza poter evitare, naturalmente, una traversata in direzione Milano, gettando l’ancora al Piccolo di Grassi, e a Venezia.

Una stagione, quella del teatro contemporaneo, già definita in molti modi.
Nella sua presentazione, nel corso di Più Libri Più Liberi, sceglie «straordinariamente feconda e straordinariamente infeconda, un momento di grande ricerca finito in modo imprevedibile».

 

Per tracciare la parabola è però necessario segnarne l’inizio, e il saggio di Lucidi si occupa anche di questo, chiosa Neri Marcorè, che nelle pagine ritrova «tante matrici da cui si ricavano i termini del teatro e se ne coglie la necessità e la connotazione trascendentale, da Oriente a Occidente».

Un «luogo emblematico di cultura. in cui si ritorna per sentirsi umani», di cui si ama ripetere quasi ossessivamente le difficoltà, prima fra tutte la crisi apparentemente endemica che però Lucidi, con ironia e – finalmente – poca voglia di ripetersi, annota essere altrerranto antica. Persino Tespi e il suo primo carro erano già in crisi, sorride, visto che di crisi del teatro si scrive fin dai tempi d’Aristotele: se fosse, piuttosto, un segno di vitalità? Parlare di crisi è «benaugurante – chiosa Lucidi – perchè garantisce che permarrà».

Se però di crisi si deve parlare, può essere anche l’occasione di offrire antidoti. Cosa portare in scena, oggi? Marcorè ha le idee chiare: «voglio calcare il palco per dire cose che valgano la pena, purchè siano declinate al presente, se possibile al futuro» Teatro, insomma, «dal vivo e non dal morto». Altrimenti si manca di rispetto ai maestri stessi.

Maestri e pietre miliari sui quali Lucidi si sofferma con precisione ed efficacia, da Carmelo Bene a Giorgio Strehler, ma che non sono l’ultima risorsa della scena italiana. Lucidi non è proiettato nel passato, e pragmaticamente sa che il teatro contemporaneo porta con sé crisi, ma anche occasioni.

«Il materiale esiste. Se il 10% della drammaturgia italiana venisse alla luce avremmo un teatro vivissimo», purchè esso sappia rinunciare all’ossessione di «esterofilia naturalistica» delle produzioni,
Una presa di consapevolezza che si acquisisce osservando con vera cura ciò che accade, fuori delle torri d’avorio della critica intellettuale. E in effetti, commenta Mariano Aprea, a muovere Lucidi è «il rispetto dell’attore come taglio ontologico. Pensare di capire tutto è volgare».

Compito del critico, quindi, lungi dal mero giudizio di valore, è – conclude poeticamente Aprea – «testimoniare lo scarto tra la quotidianità e la presa dello specchio per dimosrare a Dio chi è».  Il lavoro del critico non è «mai riconoscimento di una compiutezza, ma il moto verso la frattura dell’incompiuto. L’alterità e non l’identità deve entrare nell’opera per trascolorarla».

Solo così il teatro si avvicina alla propria funzione profonda, «esibire un limite non retorico» che rifugga la banalizzazione in favore di una complessità che non è esibizione di vezzi ma labor limae, quando la semplicità sia punto d’arrivo e non scorciatoia.

In questo senso, commenta Lucidi si può «agire per la forma dell’azione che si compie, non solo per il risultato, e questo è un gesto che nasconde grande grazia», tendere non all’efficienza ma al suo opposto, l’efficacia: il massimo sforzo per un obiettivo invisibile, senza paura di sprecare perchè, è convinto, «l’arte è ciò che resta quando la pattumiera è piena» oppure, per dirlo con Ennio Flaiano, «cercare nel buio qualcosa che non c’è e trovarla».

Così, la funzione della critica è capitale, come non lo è il giudizio, Essa deve essere sprone, «spingere lo spettatore a mettere in gioco sé» e le proprie certezze, osservare la realtà come la scena da un punto di vista eccentrico a sé.

Come la drammurgia femminile, conclude Aprea, mortificata da un punto di osservazione maschile, Se la si osservasse da un punto di vista femminile, è convinto l’attore, «si creerebbe una nuova fisica».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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