Cattive acque. Film di denuncia sui veleni presenti nella nostra vita quotidiana. Non solo Coronavirus

Il film Cattive Acque si aggiunge a quel filone di genere thriller-catastrofe seguito da inchiesta legale, cui fanno parte tutti quei film di denuncia sugli inquinamenti di luoghi ed avvelenamenti di persone, seguiti da morte con varie letali patologie.

Alcuni film precedenti hanno avuto ottimi successi commerciali e premi prestigiosi. Insider – Dietro la verità (Michael Mann 1999, sette nominations all’Oscar) con Russel Crown, storia vera di un funzionario di una società di tabacchi che rivela ad un giornalista (Al Pacino) il trucco usato da anni dalla sua azienda, di addizionare il tabacco con soluzioni di ammoniaca, per creare assuefazione nei fumatori, con conseguenti tumori.

Erin Brockovich (StevenSodebergh 2000) con Julia Roberts (Oscar migliore interpretazione) raccontava la battaglia di una donna comune contro la Pacific Gas & Electric, che aveva sversato cromo esavalente tossico e cancerogeno, usato come antiruggine nella centrale di compressione del gas. Con una conseguente Class Action, di circa 300 persone che hanno ricevuto 330 milioni di dollari dalla compagnia per aver inquinato l’acqua potabile di un paese e fatto ammalare gli abitanti (tumori, linfomi, aborti, ecc.).

A civil action (Steven Zuillan 1998) con l’avvocato John Travolta contro gli sversamenti di tricloroetilene (un composto usato come sgrassante) effettuati da una società chimica nelle falde acquifere usate come acqua potabile da una comunità.

Cattive acque è stato diretto con mestiere da Todd Haynes (Lontano dal paradiso 2002), un cultore del melò americano, e fortemente voluto dall’attore, attivista sociale, Mark Ruffalo (Spotlight 2015); è meno spettacolare rispetto agli illustri precedenti ma più incisivo nel suo significato social-sanitario.

Il film, infatti, finisce col dire schiettamente una verità assoluta che tutti evitano e non vogliono sapere: tutta la popolazione mondiale causa gli inquinamenti dell’aria, dell’acqua, degli indumenti, degli alimenti, ecc. ha in corpo una percentuale (più o meno alta e non degradabile) di composti creati dalla chimica, pericolosi per la salute. Sono frutto di azioni umane esercitate a fini di guadagno con superficialità, corruzione, indifferenza per la vita degli altri e della natura e soprattutto omissione di informazioni importanti per chi poi deve esercitare le cure.

Solo per quanto riguarda l’Italia, si può ricordare il Polo nella produzione di plastica della laguna di Venezia, Porto Marghera ed Alto Adriatico dove sono dispersi diossina, policlorobifenili, cloruro o isocianato di metile, arsenico, metalli pesanti, ecc. Il Polo petrolifero e di trasformazione idrocarburi (raffinerie, fertilizzanti e fibre sintetiche) di Gela, Manfredonia e Siracusa dove si riscontrano idrocarburi, metalli pesanti, diossina, policlorobifenili, ecc. E ancora: il Polo siderurgico e di raffinerie di Taranto con presenze di diossina, metalli pesanti, idrocarburi, ammoniaca, mercurio, ecc.

Il Polo fertilizzanti e pesticidi della val d’Ossola con presenze nelle acque e nell’aria di acido solforico, biossido di azoto, zolfo e carbonio, difenil-tricloroetano, policlorobifenili, ecc. Per non parlare di Casale Monferrato per l’inquinamento da amianto e Seveso per l’inquinamento da diossina. Ma si potrebbe dire che ogni torrente o fiume italiano non si salva dagli sversamenti, dalla Liguria alla Sardegna, con presenza poi nelle acque potabili dei servizi idrici comunali di percentuali (sempre nei limiti) di composti chimici e metalli pesanti.

La storia di Cattive Acque è quella dell’inchiesta di un avvocato “Robert Billot, che divenne il peggior incubo per la multinazionale della chimica DuPont” (titolo originale del film), che negli anni ’30 aveva inventato un prodotto ignifugo ed idrorepellente, usato in guerra per tante macchine belliche (cannoni, carrarmati, fucili ecc. e per tanti oggetti e vestiti dei soldati (Teflon e Goretex), poi, nel dopoguerra, passato ad un uso in prodotti civili, per ogni tipo di cromature, di rivestimenti di mobili ed oggetti da cucina (rifiniture di cucine a gas ed elettriche, frigo, ed altri elettrodomestici, padelle e pentole antiaderenti, posate, contenitori per alimenti); per poi passare ai pavimenti di linoleum, ai tappeti, ai divani, ai letti, ai mobili di plastica.

Billot nel 1998 viveva a Cincinnati (Ohio) e come socio di una società legale difendeva le industrie chimiche. Un giorno un agricoltore-allevatore del West Virginia, amico di sua madre, lo informò della moria di centinaia di bovini con tumori agli organi più importanti (fegato, colon, mammelle, ovaie ecc.). Ancora molto scettico, Billot scoprì, nel suo sopralluogo di cortesia, che in un torrente che scorreva di fianco alla fattoria erano presenti scarti di lavorazione della fabbrica a monte della DuPont. Altre analisi rivelarono che anche le falde acquifere dell’acqua potabile degli abitanti dell’area erano inquinate, e molti bambini nascevano con piccole deformazioni.

L’avvocato Billot, a rischio di perdere il posto e forse la vita, nello studiare a fondo le analisi dei prodotti usati dalla fabbrica scoprì la sigla PSOA, derivato chimico che veniva usato da 50 anni ma che nessuno sapeva cosa significasse. Si trattava di un prodotto chimico (detto anche C8), composto da una catena di 8 atomi di carbonio e fluoro, un coadiuvante nella produzione di fluoropolimeri utile per tutte le cromature e rivestimenti dei metalli. Da studi più accurati nel tempo si accertò che il composto chimico non si degradava mai ed entrando negli organismi umani e vegetali causava patologie che oggi comprendiamo meglio (parkinson, alzheimer, linfomi, tumori, leucemia, ecc.).

Robert Billot ha combattuto 17 anni contro la Fabbrica DuPont e contro gli abitanti del West Virginia che non ne volevano la chiusura per non perderne i benefici, mentre la potente industria faceva produrre da analisti statali dei prezzolati rapporti falsi, finché la raccolta di analisi fatte a 69.000 abitanti dell’area e 7 anni di ritardi funzionali per analizzare i test, rivelarono la pericolosità del prodotto chimico PSOA.

Dal 2015 Billot è stato l’avvocato di circa 3500 ammalati (anche morti nel frattempo) ottenendo risarcimenti per 700 milioni di dollari.

Robert Billot è venuto in Italia nel 2017 (ma questo non è nel film) a prestare la sua consulenza per capire un prodotto con sigla PFAF (che fa parte della famiglia del PSOA), usato da una industria di Vicenza che aveva contaminato una vasta area inquinando le falde acquifere, con un limite di 35 volte superiore a quello ammesso dall’ISS e con malattie riscontrate nella popolazione simili a quelle del West Virginia.

Cattive Acque, non solo per effetto della quarantena da coronavirus, ha avuto una scarsa distribuzione nella sale cinematografiche, ma ha rivelato tante verità e veleni che non sappiamo o vogliamo vedere, molto presenti nelle nostre vite quotidiane.

Ci auguriamo quindi una nuova o diversa distribuzione di questo film perché più pubblico possibile possa conoscere questa storia ed i grandi pericoli che sta correndo l’ambiente e la salute collettiva, risvegliando le coscienze su questioni essenziali che ci riguardano tutti.

Qui il trailer ufficiale…

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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