Leonora Addio di Paolo Taviani. Il soffio di Pirandello e il respiro evocato del fratello Vittorio

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Di Leonora, protagonista di un racconto di Luigi Pirandello, neanche la traccia eppure il titolo evocativo dell’ultima opera registica di Paolo Taviani (la prima senza il fratello), si ispira e vive dello stile e delle atmosfere generate dalla penna pirandelliana. È anzi proprio lui, premio Nobel della Letteratura nel 1934, il motore di Leonora Addio, film presentato in anteprima al Festival di Berlino e meditato per anni insieme a Vittorio Taviani, cui è dedicato il lavoro, poiché insieme lo concepirono ai tempi di Kaos.

Il racconto delle “ceneri di Pirandello” avrebbe potuto infatti concludere il celebre film tratto da quattro Novelle per un anno, ma allora non c’erano più risorse e i due affiatatissimi fratelli del cinema italiano decisero di farne un’opera a sé che solo ora e a sole due mani è stata realizzata.

La struttura con cui è stato concepita è una emblematica narrazione a due tempi: il primo, incentrato sulle vicissitudini che fecero tornare nella sua Girgenti il grande drammaturgo all’interno di un’anfora ma le cui sembianze cineree dovettero aspettare anni prima di essere immolate, e non proprio tutte, dentro un sepolcro artistico ricavato da una roccia grezza; il secondo incentrato sulla messa in set dell’ultimo racconto, Il chiodo, scritto dall’agrigentino a 20 giorni dalla morte.

Il bianco e nero della travagliata vicenda con cui si cerca di dare una pace realmente eterna dopo la fine della vita di Pirandello, facendo rispettare le sue volontà testamentarie, rappresenta una scelta di entusiasmante stilizzazione nelle riprese e punti di vista della camera, nel disegno semantico del posizionamento delle luci, nell’espressività neorealista e intimista degli interpreti – spicca tra tutti il profondo e intenso Fabrizio Ferracane nel ruolo del delegato del Comune di Agrigento che deve attraversare diversi inconvenienti prima di arrivare alla mèta e consegnare Pirandello alle autorità – ma soprattutto nel montaggio (elogio al grande Roberto Perpignani!) che lega sincronicamente sguardi, gesti, azioni, suoni e musiche in un gioco in equilibro di significanti e significati nel quale vista e udito sono intimamente connessi al cervello emotivo e al pensiero-memoria.

In questo rebus di citazioni stilizzate si inserisce l’entusiasmante intuizione registica di recuperare il passato del cinema nel cinema e, allo stesso tempo, del teatro nel cinema.

Se nella prima parte il recupero del repertorio archivistico audiovisivo di filmati e spezzoni della storia degli anni Trenta e Quaranta (e in particolare il drammatico periodo della seconda guerra mondiale) si bilancia all’inserimento di frammenti di alcuni delle più celebri pellicole sull’epoca che hanno segnato la storia del cinema italiano – lasciando l’occhio scorrere indistintamente e in un solo fiato dall’invasione bellica alla fucilazione di certi colpevoli, dall’angoscia della separazione al ritorno degli scampati –, nella seconda è la traslazione dalla letteratura al grande schermo passando dal teatro (per poi farne ritorno, sul finale) a connotare la novella pirandelliana di una matrice siculo-hollywoodiana che in certe scelte ricorda la scenografia di ampio respiro di alcuni gangster-film.

Senza svelare e rivelare i dettagli e i meccanismi di affabulazione visiva con cui il film si dipana con piacevolezza e scorrevolezza drammaturgica, si potrebbe asserire che è proprio il senso dello spettacolo – non spettacolarizzato ma sorprendente nella sua ricchezza di intrinseci messaggi e segni esteriorizzati – che coinvolge lo spettatore in sala, catturato a tratti dalla voce narrante dello stesso Pirandello dall’aldilà – affidata ad un meraviglioso Roberto Herlitzka – e che, abbandonata la dialettica tra maschera e vita si concentra su quella di vita/morte attraverso il fuggire rapido del tempo.

La scena iniziale nella quale in soggettiva Pirandello si trova, morente, nel letto della sua camera prima di esalare gli ultimi respiri, è una magistrale lezione di esistenzialismo: a metà tra un quadro metafisico ed un tableau vivant di puro espressionismo, il regista fa entrare tre bambini – i figli dell’autore – poi uomini, poi vecchi, quasi a misurare la visuale della macchina da presa con la sabbia di una clessidra che scorre via velocemente. E, nel mentre, le considerazioni intense sul tempo (“Possibile che sia già finito in un attimo?”) e i dettagli sulle mani che si sfiorano e si stringono, del respiro, che ansima e poi cessa, del pensiero di una professione che, nella dolce conquista della gloria ha provocato l’amaro della tristezza e solitudine (emblematica, nella sequenza della cerimonia del Nobel recuperata dall’Istituto Luce, con la quale inizia il film, la ripresa della figura isolata dell’autore, incarnazione della malinconia assoluta, vagamente ultraterrena).

Se di concetti si vuol parlare attraverso le immagini, questa coraggiosa opera docu-filmica ne è piena, passando dal Grottesco pirandelliano in certi episodi  – la corsa ad ostacoli sull’Appia con la jeep americana  per oltrepassare i ciclisti o il  gioco di tre sette col morto sulla cassa con le ceneri pirandelliane – al Dramma della Storia che ha represso, se non annullato, le emozioni il cui recupero è timidamente lento e sul quale, a tratti, Taviani imprime flash epifanici (come la scena della giovane coppia di sposini che vede risorgere l’amore fisico, senza più costrizioni, sul treno della salvezza verso casa).

Tragedia e leggerezza, nel teatro dell’assurdo che circonda la difficoltosa storia pirandelliana post-mortem si contornano, in questa articolata narrazione cinematografica, di solennità, lo splendore della quale si manifesta, come già accennato, nell’obiettivo poggiato con lentezza sul dettaglio, ma soprattutto in una colonna sonora che si fa parte integrante dell’azione.

Ad essere chiamato a costruirla, dopo le passate esperienze già vissute insieme dai fratelli Taviani in La notte di San Lorenzo, Kaos, Good Morning Babilonia, Il sole anche di notte, Fiorile e Tu ridi, è il Maestro Nicola Piovani, che non solo riesce ancora una volta a rendere simbiotica la liaison tra suono e immagine contestualizzandone il messaggio emotivo, ma la cui arte compositiva si esplica al meglio nella creazione di temi che persistono mnemonicamente (come quello suonato da un pianoforte scordato sul treno per la Sicilia, ritrovata patria d’infanzia).

Una volta ritrovata la pace tra le mura della pietra agrigentina e le onde del mar Mediterraneo, Pirandello arretra e al suo posto arriva la sua scrittura: da qui in poi il registro (anche musicale) cambia: ci troviamo in un altro film, che a primo acchito sembra girato da un altro regista.

Eppure questa fase sconnessa di scomposizione della partitura narrativa è logicamente premeditata: seppur spiazzante, l’inserimento de Il chiodo è un omaggio alla poetica dei sentimenti pirandelliana. L’ultima novella dell’autore vede protagonista un ragazzo strappato in Sicilia dalle braccia della madre e costretto a seguire il padre al di là dell’oceano nella speranza di una nuova vita, ma che, non potendo sanare la ferita della scissione dal grembo materno, compierà un gesto insensato, uccidendo con un chiodo una bambina di sei anni e restando accanto alla sua lapide per il resto della sua vita.

C’è, in questo, la storia dell’immigrazione, il bisogno del pentimento, la gioventù bruciata, ma c’è anche il fascino della creazione ricreata che celebra la felice commistione di realtà e finzione, di letteratura e cinema, di storia e poesia, nell’abile mano d’artista di un ossequioso lettore, filosofo e visionario quale Paolo Taviani dimostra di essere.

Per questo e mille altri motivi questo film non può restare inosservato, ma va guardato, respirato, interpretato, commentato e decisamente ricordato.

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Laureata in Lettere e dottoressa di ricerca in Storia, teoria e tecnica del teatro e dello spettacolo, è stata per diversi anni cultrice della materia nella cattedra di Metodologia e critica dello spettacolo all’Università La Sapienza di Roma. Iscritta all’Ordine dei Giornalisti del Lazio come pubblicista, ha collaborato per molte riviste e web magazine e attualmente scrive di cultura per “Dazebao”, “Leggere: tutti” e “artapartofcul(ture)". Curatrice artistica di alcune manifestazioni e rassegne culturali, ha lavorato come promoter musicale per artisti, music club, festival ed etichette discografiche. Dal 2001 è titolare dell’agenzia a suo nome specializzata in promozione, ufficio stampa e pubbliche relazioni.

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