Il mito ci abita. Sempre più affascinata e alla ricerca di risposte, questa epoca si confronta con il mito in tutte le sue sfaccettature. Lo interroga, lo modifica, lo sfida.
E lui rimane lì, invincibile a raccontare sempre la stessa verità: il nostro esistere.
Vi parlo di Itaca deserta ruggine, un testo forte, poetico, graffiante, disperato, ironico (anche se a denti serrati) di Francesco Randazzo, che ho avuto modo di vedere qualche tempo fa, alla Villa di Livia per “Opera Prima”, nell’ambito della rassegna Teatri di Pietra del Lazio conla regia di Cinzia Maccagnano.
Uno spettacolo che porta lo spettatore a interrogarsi ancora su quello che ha sempre saputo e immaginato dell’eroe Ulisse.
A teatro, d’altronde, si compie al massimo il rito dell’offerta mitologica. Qui personaggi e storie trovano la vita che s’era arenata nelle parole degli aedi. E offrono nuove possibilità.
L’Odìsseo di Randazzo, uomo contemporaneo, forse un manager al tracollo, forse un mercenario della quotidianità, torna, nel gorgo di un naufragio, alla sua Itaca, l’isola risplendente che ora, sotto una pioggia che sembra cancellare tutto, si sgretola fra ruggine, coaguli e calcinature.
Ulisse, che vive più nel ricordo dell’appagamento dei suoi desideri che in quello delle sue gesta, rievoca Calipso, Nausicaa, Circe e tutte le altre che sono riuscite a placare il suo ardore, ma torna per salvarsi e sa che questa salvezza potrà venire solo da Penelope.
Quella Penelope che siamo abituati a conoscere come donna forte, tenace, autorevole, pura e remissiva, capace di mentire e di resistere, nella lettura di Francesco Randazzo cambia volto e ci apre una visione meno edulcorata, dove non c’è nessuna garanzia di ordine e di sopravvivenza.
E questo Odisseo lo percepisce, così come intuisce che la celebrazione del suo amore per sua moglie, per la sua regina, forse è solo un immaginario arrugginito come il suo regno.
Anche Penelope lo sa. Sa che il suo re non è altro che l’uomo sbagliato, colui che ha trasformato la sua vita senza che lei potesse realizzare alcun progetto.
Di spalle la Penelope di Cinzia Maccagnano, nervosa, altera, risentita e preziosa, sgrana la sua storia mentre la sua schiena si staglia nell’azzurro mare del vestito.
Su di lei non piove come nel resto dell’isola.
Roca, striata da un’attesa che abbiamo sempre considerato valore e devozione, ci racconta un’altra storia.
Quella di una donna che ha scelto la sua strada. Che ha conservato quello che Odisseo aveva scelto di perdere. Che, anche se ha tradito e amato, in verità non si è mai lasciata sedurre.
Ha le abitudini e i vizi della vita quotidiana questa principessa sparatana figlia della naiade Policaste. Almeno così racconta Ulisse, che Raffaele Gangale interpreta magistralmente con il distacco, l’impeto e la prepotenza dell’uomo impaurito che sa di averla come unica, ultima meta.
Attorno a lei, attorno a questa coppia di cui dovremmo sapere tutto, ma non sappiamo davvero niente, si muovono Marta Cirello, Luna Marongiu come un coro dalla gestualità rituale; due figure che accompagnano entrambi i personaggi nelle loro più laceranti confessioni.
E mentre Ulisse ormai sfiancato, ormai deluso, ormai vecchio aspetta solo di essere riammesso ai suoi sentimenti e alla vita che vede sfumare, Penelope sceglierà di ricomporre i pezzi di quella storia.
Di fronte, ora, come una dea madre siederà a guardare il mare raccogliendo attorno a sé quello che resta del suo regno e della sua famiglia.
Con questa doppia rivisitazione del mito omerico Randazzo e Maccagnano ci svelano che non c’è conoscenza che tenga. Che il mito troverà sempre una nuova via per manifestarsi.
Quella di questo testo e di questo spettacolo racconta della banalità dell’eroismo, dell’inutilità dell’inflessibilità e del rigore; racconta del mondo che comunque seguirà il suo corso e del destino che si compirà a dispetto di tutte le scelte.
E racconta anche di quante possibilità esistono per essere se stessi e di quante se ne perdono per essere quello che il cuore vuole che noi siamo.
Perché se c’è una verità che ha trascinato il pubblico di questa Itaca, è proprio quella dell’emozione e della poesia che omnia vincit.
Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.
Il destino si compirà a dispetto di tutte le scelte…allora siamo vissuti e io è sempre un altro?
L idea di tanti futuri possibili mi arride di più.
Splendido resoconto di una pièce graffiante e più che mai presente.
È vero,i miti come immensi contenitori abitati dai viventi o che vivono annidati nella nostra psiche,suggestivo…
Dove si colloca la dimensione della libertà dell’ uomo allora se non nella ricerca della verità?
Amor omnia vincit e con esso e per esso la poesia che emozionando si fa insondabile veicolo di verità…
Potrebbe essere?
Memorie e produzioni artistiche di marginali le interessano ancora?
Grazie
Sono i margini ad essere densi di libertà.
Il centro si depaupera ogni giorno di più richiamato da sitene inconsistenti e troppo consuete.
Credo nel fato, un po’ come nella canzone di Roberto Vecchioni “Samarcanda”. Dovunque andrai, se hai un appuntamento con il destino, questo ti troverà e si presenterà.
Ciò non toglie nulla alla libertà.
Siamo liberi di vivere, di amare, di fare poesia, di stare ai margini, di produrre arte e memoria.
Fin quando qualcosa non ci manderà altrove.
Il destino non è per forza la fine.
Altrove è il destino.
Le rispondo con una frase trovata per caso sfogliando un libro
….in un età in cui l unico mito e la dissoluzione dei miti arcaici,solo la tragedia della loro perdita può essere il tema della tragedia.
In Samarcanda il protagonista sta cercando di fuggire al suo destino di mortale,forse il segreto sta nel non fuggire la morte cercando di mettersi in salvo….
Il filo che lega i destini umani,il castello dei destini incrociati di Calviniana memoria,il concetto di destino come una concatenazione di cause ed effetti della serie chi di spada ferisce di spada perirà.
Nemesis di intere civiltà etc.
Bello lo spunto dell’ altrove
dopo aver attraversato una soglia…. è il dolore del passaggio che spaventa ma come si dice il prode muore una volta sola al contrario del vile e del pauroso.
Se volessi inviarle due brevi racconti inerenti,dove potrei farlo?
Grazie
La mia mail, per mandarmi i suoi testi, la trova nei contatti del magazine (https://www.artapartofculture.net/contatti/).
Quando lo farà la pregherò di palesarsi oltre il nickname. È importante, per me, sapere con chi sto dialogando.
Capirò anche se non dovesse ritenerlo opportuno.
Ho però la sensazione che dovrebbe interagire anche con l’autore del testo, Francesco Randazzo.
Io non ho compiuto altro che il mio compito di narratrice.
Attorno c’è un gran proliferare di riletture del mito. Di grandi autori o solo di curiosi. Ognuno prova a piegarlo ai suoi significati.
Ma il mito è proprio oltre. Il mito è come una macchina creata per organizzare la società degli uomini.
Ultimamente è ritornato il dibattito sul “contenutismo, sulla scrittura come testimonianza e non come avventura conoscitiva di sé” (cito la studiosa di teatro Rossella Menna).
Trovo interessante che sia giunto il momento di liberare (almeno filosoficamente) l’arte dalla funzione.
Spesso queste riletture dei miti sono fatte per avere una funzione. Sociale, politica, di denuncia o di indirizzo. E questo toglie all’arte, alla scrittura, al teatro il loro senso, le loro contraddzioni, le magie…
Ancora non è chiaro, ma voci si ergono qui e là.
Noi continuiamo ancora ad individuare nell’arte ruoli e messaggi.
Ma sarebbe bello provare un’altra strada. Una strada persa, una strada che potrebbe finanche andare in parallelo.