Trading places, la favola di John Landis che racconta il ‘900

John Landis era un nome che in Italia non suonava familiare quando raccontò quella favola di fine 900 dal titolo Trading places. Dato che da noi il trading era noto solo tra gli operatori di borsa, si preferì cambiare locandina e anche titolo: divenne Una poltrona per due e Landis ne fu scandalizzato. Una presentazione resa banale secondo lui, in cui andò perso non solo il doppio senso del titolo.
All’estero il regista era conosciuto per aver girato, tra gli altri, un capolavoro dal titolo The blues brothers (1980). La morte improvvisa della star di quel film fu un fattaccio per tutti: John Belushi divenne un lui in assenza, la cui presenza risulterà fortissima non solo per i fans, ma anche per i registi e gli attori che l’avevano conosciuto.

immagine per Trading places, la favola di John Landis che racconta il '900
John Belushi assente-presente

Ma a Hollywood non c’è tempo per rimanere attoniti e di una favola c’era bisogno, Landis lo sapeva, infatti il plot a cui si ispirarono gli sceneggiatori di Trading places (1983) –Tim Harris e Herschel WeingrodIl principe e il povero di Mark Twain, si trasformò in una narrazione attualizzata, con qualche eco de La vita meravigliosa di Frank Capra.

La Paramount l’aveva destinato ad essere interpretato dalla coppia Gene Wilder e Richard Pryor, sulla scia delle commedie brillanti del fortunato duo; questo se la sorte non si fosse accanita, trascinando Pryor nei gorghi di droga finché non si appiccò fuoco, rimanendo gravemente ustionato. Dopo l’incidente il progetto rimase vacante per un po’.

Richard Pryor e Gene Wilder per i quali era stato pensato il film

Non è raro appassionarsi ad alcuni comici del passato che dietro la maschera irriverente nascondevano fragilità e sbandamenti. Far ridere non è solo un mestiere, ci vuole generosità. Nel rivolgersi con sarcasmo ai mali del mondo, un regista, un comico, dileggia sé stesso perché l’amarezza è sempre presente, mentre per ridere o piangere di noi stessi, di quello che siamo divenuti, dovremmo ricordarci di esserne stati gli artefici.

Per descrivere l’arido mondo degli yuppies, il ritmo no-stop delle commedie di Landis apparve ideale: “Leggi questa sceneggiatura” gli disse John Katzenberg della Paramount, “che ne dici di dare la parte di Pryor a Eddie Murphy?”.

Rispose che lo conosceva bene, l’aveva visto nel famosissimo show Saturday night live, quanto alla sceneggiatura, Landis si disse entusiasta, ma rimase irremovibile circa la scelta dei comprimari: l’ottimo Dan Aycroyd, lasciato in panchina dopo il flop di Doctor Detroit (1983), per la prima volta non in coppia con John Belushi. E poi la simpatica e bellissima Jamie Lee Curtis, figlia di Tony Curtis e Janet Leigh, divenuta famosa con Nightmare e che rischiava di rimanere legata a quei ruoli. Aycroyd recitò brillantemente, Jamie Lee tenne testa con orgoglio ed ironia ad un ruolo limitato, da vera professionista. Denholm Elliott, caratterista di razza, fece del personaggio del maggiordomo una figura indispensabile nel film.

Aycroyd, Murphy, Lee Curtis, Elliott sul treno

Favola sì, sotto, sotto straziante e beffarda, così ben confezionata da rimanere fino ai nostri giorni un film delle festività.

Mostrare l’altra faccia degli Stati dell’Unione fu facile per Landis: debordando e desacralizzando, filmò una metropoli sporca, stipata nei ghetti, tra pendolari e mendicanti, un intero mondo in ombra, mentre sui giornali dell’epoca svettavano i castelli dei ricchi, gli interni raffinati, maggiordomi, auto lussuose, autisti, snob club, twin towers…

Figura simbolo dello yuppie rampante fu Aycroyd, nei panni dell’insopportabile Louis Winthorp terzo, opposto a Murphy che impersonò Billy Ray Valentine: abiti lisi multistrato e colbacco, falso cieco, falso mutilato di guerra, lo incontriamo mentre strattona la pelliccia di una passante e poi viene inseguito dalla polizia in un esclusivo club.

Qui facciamo la conoscenza dei deus ex machina della storia, Randolph e Mortimer Duke, presidenti della società di trading in cui lavora Winthorp e che per abitudine scommettono su tutto, anche sulla possibilità che quel nero capitato lì possa divenire un abile e ricco trader.

Eddie Murphy

Erano i tempi in cui nelle università ferveva il dibattito tra genetica e ambiente che da noi sarebbe sbarcato negli anni 90. A monte del pasticcio per cui Winthorp finirà miserabile e in carcere affinché Valentine ne prenda il posto, c’era stata una scommessa crudele.

Indimenticabili attori di scuola teatrale, ritroveremo i Duke (Ralph Bellamy e Don Ameche, entrambi premi Oscar) in un felice cameo della pellicola Il principe cerca moglie. Una never ending story in cui la morale è sempre la stessa: il dio denaro risolve tutto…

Bozzetto del film proprietà Paramount picture

Negli anni in cui uscì Trading places ero già alle prese con le mie lezioni di resistenza, i miei personaggi limite, intriganti, misteriosi, tutti controcorrente che non somigliavano agli yuppies rampanti di Wall Street, ma da quel film mi fu facile capire quanto fossero razzializzati alcuni gruppi etnici con quello che sarebbe stato definito lo sbiancamento delle culture: d’altronde il razzismo è sempre stato un problema bianco.

Gli spettatori partecipano, oggi come ieri, della sonora risata del doppiatore di Murphy, inesistente nell’opera originale. Il cliché era il medesimo di tanti film: un afroamericano che tirava a campare imbrogliando la gente, viene considerato colpevole di crimini contro la società, mentre i furti su vasta scala della finanza venivano assolti, di qui la battuta di Billy Ray quando definisce allibratori i trader.

Il film è figlio dei tempi e scricchiola sui luoghi comuni che intende denunciare: di certo molte cose suonano male ai nostri giorni. Un universo femminile che si divide tra allegre prostitute e ragazze di buona famiglia senza altra aspirazione che sposarsi. Ma quel giovanissimo Eddie Murphy contribuì alla fortuna del film sfoderando un talento esilarante e una irresistibile comicità, come pure un’eleganza raffinata e un piglio algido quando la sorte lo farà divenire l’avvenente William Valentine, agente di borsa. Un vulcano di espressività che giorni fa ha ricevuto il premio Cecil B. DeMille per 41 anni di carriera nel cinema.

Trading Places

D’altra parte Dan Aycroyd piacque molto nel suo ruolo, io me ne interessavo dai tempi della band dei Devo e dei goofy canadians, fino ad Elwood dei fratelli blues e alla sceneggiatura di Ghostbusters. Pochi anni dopo avrei acquistato all’American Book shop quella biografia di John Belushi a firma Bob Woodward in cui era descritto il retroscena di quei giorni.

Dramma reale, quello per la morte del suo fraterno amico John, in una maledetta notte allo Chateau Marmont di Los Angeles… Ora per Danny c’era una nuova prova: mostrare il divario tra un azzimato Winthorp Louis terzo e il mendicante e poi invertire i ruoli, esponendo l’ingiustizia sociale sul registro di Twain.

Dan Aycroyd ai tempi dei Devo

Dietro la messinscena di Trading places pulsa brutale l’esistenza, offrendoci lo spunto come preciso strumento di trasformazione tra il piano della scrittura e quello della ripresa filmica, che alla fine sfugge dal sistema di valori che rappresenta per ricaderci pesantemente nel lieto fine.

Resta un film divertente, farcito di battute formidabili, che insegnò qualcosa sui futures delle materie prime (alcune scene sono state girate al New York Board of Trade), nonché sull’insider trading. Questa pratica divenne reato nel 2010 e fu denunciata al Congresso degli Stati Uniti citando la scena finale di Trading Places: alla norma emanata ci si riferisce ancor oggi come alla regola di Eddie Murphy.

Una poltrona per due è, come La vita meravigliosa, un film iconico delle festività, ma non è il solo fattore che li accomuna, sono anche film in cui si parla di soldi. Da una parte i pessimi Duke and Duke, dall’altra un’onesta società di prestiti e mutui. Sui due film permane l’ispirazione alla giustizia sociale, anche se George Bailey non impiegherà gli stessi mezzi dei protagonisti di Trading Places per vincere. L’etica evidente nel film di Capra latita nell’altro, dove la ricchezza può essere ottenuta indulgendo nello stesso crimine dei cattivi per antonomasia. Ad usare bene la finanza nell’economia reale, anziché speculativa, si sarebbe potuto offrire un futuro al mondo, ma le società di prestiti non sono la Bailey bros, preoccupata del benessere della gente…

Una volta un critico mi fece notare quanto fosse catartico Aycroyd nella scena in cui mangia il salmone tra i peli della barba finta da babbo natale: possiede una coesistenza iterativa della società che ci rappresenta, disse. Che tradotto può voler dire molte cose, ma quando guardo un film faccio più caso ai sentimenti umani, a quelle cose che ti rimangono alla fine.
E che divengono parte di te.

+ ARTICOLI

Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.