La settima croce. Il dramma nell’arte cinematografica 

Dove c’è molta luce l’ombra è più nera, scrisse Goethe. L’inclinazione a trarre storie da questi opposti ha acceso la fantasia di molti sceneggiatori della settima arte. Settima come la croce che rappresenta la rivincita in un vecchio film…
Ma la settima croce rappresenta anche lo sforzo di chi nel personaggio si cali fino a smarrirsi, in un processo che può incidere l’identità degli attori nonostante gli strumenti appresi per calarsi e poi uscire dal ruolo.

Nell’impianto estatico delle mecche del cinema -oggigiorno la più sfarzosa è quella indiana- le star vivono attraversando trionfi e successi, finché arriva l’ottava discendente, per dirla con Gurdjieff.

Non ci si accorge di doversi fermare, ritirare, esfiltrare. Fama e gloria innescano una dipendenza difficile da combattere tra  lavoro recitativo, tenore di vita, ambizione a mantenersi sulla cresta dell’onda. Un tempo era sufficiente interpretare buoni film, oggigiorno l’impegno sui social non concede pause.

L’esperienza umana è in via di principio indescrivibile, scrisse Fromm, ma ai nostri tempi l’essere confluisce nell’avere, nelle cose descrivibili, dato che anche la vita privata degli individui è mercificata e spendibile attraverso la sua divulgazione.

Per fortuna molti sono gli attori intelligenti ed ever green: consapevoli riguardo sé stessi, perspicui rispetto al trend, elaborano strategie salutari che mantengono giovani questi perennial dello schermo. Al contempo, impianti scenici di grande interesse brillano in alcune mini produzioni dell’attuale on demand (Mike Flannagan di Midnight club, per esempio: mi domando se avrei saputo rendere altrettanto efficace la struttura di una sceneggiatura).

Forse la settima croce coincide con l’abilità umana di sfuggire ai cliché.

Attori superati dagli altri, più giovani, e attori in declino: “Sono un povero c’era una volta senza talento”, dice il dottor Brewster in Tootsie (1985). “Sei mai stato famoso?” ribatte Dustin Hoffman nei panni di Michael Dorsey: “No? E allora come puoi dire d’essere un c’era una volta?”

Nessuno più degli attori stessi sa essere caustico riguardo il proprio mondo.

Fu George Cukor a raccontare È nata una stella (1937), dramma del divo alcolizzato che tramonta mentre trionfa una nuova stella da lui stesso aiutata ad affermarsi, con Judy Garland e James Mason. Il primo film che vidi tratto da questa sceneggiatura fu quello del 1976 interpretato dalla magnifica Barbra Streisand.

Ed è un peccato che in Italia nessuno avesse pensato ad un remake con la nostra stella di prima grandezza, Mina, i cui eccezionali talenti vocali sono uniti ad una tenace vis interpretativa. Certo, ci voleva uno spirito indomito come Bradley Cooper per mettere a punto un film coraggioso come A star is born (2018), spogliando e rivestendo Lady Gaga con lungimirante avvedutezza.

Ma torniamo alla polvere di stelle del tempo che fu: Joseph L. Mankiewicz, per gli amici Leo, nel 1950 girò Eva contro Eva (ne parlammo qui): una giovane attrice ambiziosa fa da segretaria ad una grande diva ma non aspetta altro che prendere il suo posto e scalzarla. Robert Aldrich espone senza peli sulla lingua gli intrighi, le crudeltà e le iniquità del mondo di Hollywood in Il grande coltello (1955).

Ne La ragazza di campagna (1955) di George Seaton, l’attore alcolista non ce la fa più a recitare; ne La diva (1952) di Stuart Heisler e soprattutto nel Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder, la presenza di vecchie glorie del cinema muto (Gloria Swanson; Erich von Stroheim; Buster Keaton) rese più avvincente la messinscena della diva degli anni 20 che vive murata viva in una casa dove il suo passato rimane palpitante tra i ricordi.

Obiettivamente i lasciti del teatro al cinema in fatto di drammi sono stati moltissimi: le delizie della settima croce sono disseminate in un numero infinito di soggetti classici o solo famosi tra quelli che sono stati trasposti sullo schermo.

George Gordon nel 1950 realizzò Cyrano de Bergerac di Rostand; Leo Mankiewicz Giulio Cesare (nel 1953) di Shakesperare; Orson Welles offrì un insight molto personale del Macbeth (1948), dell’Otello (1952) e del Falstaff (1965), ma come scrivemmo in un articolo di Polvere di stelle, Welles fu anch’esso un personaggio singolare: autore, regista, attore dei suoi stessi film, estroso fin da giovane (quando mise in onda un dramma di uno sbarco alieno sulla terra facendolo precedere da un falso annuncio per indurre la gente che ascoltava a credere che stesse avvenendo davvero). E come dimenticare Quarto potere (1941), Rapporto confidenziale (1955), L’infernale Quinlan (1958) o Il processo (1962) ?

Il dramma della Carmen di Bizet fu reso da Otto Preminger in una Carmen Jones (1954) trasposta in una comunità di pelle nera.

Tra i drammi messi in scena dal cinema non poteva mancare quello della guerra, un cimento dei vari governi che arriva fino ai nostri giorni, rendendo lecita la domanda se sarà possibile scardinare la regia sul mondo da parte dei grandi detentori della ricchezza prodotta dai conflitti.

Quando potremo smettere di fingere di credere che non sia tutto orchestrato ad hoc (come osservò la defunta sovrana inglese ad un incontro ufficiale: dobbiamo fingere di stare divertendoci?).

Negli anni delle guerre mondiali la polvere del conflitto non arrivò in America, non i bombardamenti almeno, ma dalle vicende dei soldati inviati in guerra si trassero storie strazianti. Pensate ai ragazzi strappati alle loro famiglie e inviati in Europa, Africa, Asia e che, tornati mutilati e scioccati da questa esperienza amara, non riuscivano a reinserirsi in una società che non aveva conosciuto direttamente la guerra? William Wyler ne parlò ne I migliori anni della nostra vita (1946) dove recitò un mutilato con degli uncini al posto degli avambracci.

Nel periodo che precedette il secondo conflitto mondiale, in Germania, alcuni resistevano alla follia di Hitler a costo di finire nei campi di concentramento, come raccontò Fred Zinneman ne La settima croce (1944), tratto da un romanzo di Anna Seghers, in cui 7 tedeschi antinazisti fuggono da un campo di concentramento e vengono riacciuffati e crocefissi.

Tutti tranne uno che, in contatto con la resistenza, ritrova il coraggio per divenire un combattente. I giorni dell’attacco giapponese a Pearl Harbour vennero esaltati in Da qui all’eternità (1953) che pur evidenzia la crudeltà e le bassezze degli ufficiali di quel comando.

In Prima linea (1956) e L’ammutinamento del Caine (1954), il primo di Robert Aldrich e il secondo di Edward Dmytryk, assistiamo alla spietatezza dei comandanti che conducono a morte inutile i loro uomini, mentre in Orizzonti di Gloria (1957) Kubrick condanna aspramente il militarismo. Nessuna retorica ne Il giorno più lungo (1962), film a episodi di diversi registi sulle ore precedenti lo sbarco in Normandia del 6 giugno 1944.

Prima della guerra, il quadretto soffuso dell’american dream era stato velato nel cinema solo dalla brutalità dei film di gangster, finché il mondo reale, denso di disagio, apparve con Elia Kazan in Un albero cresce a Brooklin (1954); poi Dmytryk affronta la quotidianità del mondo dei lavoratori con gli occhi di un emigrato abruzzese sullo sfondo di uno sciopero: Cristo tra i muratori (1949) e ancora il mondo dei portuali sarà descritto in Fronte del porto(1954) e il problema del razzismo in Barriera invisibile (1947) e in Pinky la negra bianca (1949), tutti e tre di Kazan.

I tentativi frustrati di una madre che cerca di dare alla figlia un magnifico ricevimento in Pranzo di nozze (1956) di Richard Brooks. E la lotta politica spietata di Tutti gli uomini del re (1949) di Robert Rossen; la tragedia delle droghe ne L’uomo dal braccio d’oro (1955) di Otto Preminger e quella del poliziotto intransigente che scopre una colpa di gioventù della moglie in Pietà per i giusti (1951) di Wyler.

L’asso nella manica (1951) di Wilder, illustra come gli uomini possano condursi ad ogni bassezza nell’ansia di ottenere il successo, lo stesso ne Un posto al sole (1951) e Il gigante (1956) di George Stevens o ne Dalla terrazza (1960) di Mark Robson. In Stasera ho vinto io (1950) emerge lo sfondo cinico e brutale dell’ambiente del pugilato di Robert Wise.

I giovani inquieti e ribelli si fanno strada con Nicolas Ray in Gioventù bruciata (1956), ritratto dell’ambiente di una università americana dove un gruppo di studenti vive sradicato dalla società in continue risse e sfide che si concludono tragicamente.

Teppismo e corse in moto, devastazioni di locali ne Il selvaggio (1953) di Laslo Benedek. E se Richard Brooks esalta un bravo e coscienzioso insegnante che cerca di redimere i teppisti ne Il seme della violenza (1955), ne La valle dell’eden (1955) di Kazan vediamo il percorso di un giovane inquieto.

Diversi tra i film citati sono opere di scrittori illustri, uno di quelli che più ha dato al cinema è Tennessee Williams che ha ispirato Kazan per Un tram che si chiama desiderio (1951), Baby doll (1956), e poi Daniel Mann per La rosa tatuata (1956) e Sidney Lumet per Pelle di serpente (1960).

Non ispirati dalla letteratura sono Sfida a Silver city (1958) di Herbert Biberman che raccontò dello sciopero (realmente avvenuto) dei minatori di Silver city e L’uomo di Alcatraz (1962) di John Frankenheimer che descrive la storia vera di un detenuto che nello studio degli uccelli trovò lo scopo della vita e divenne scienziato. Tra il dramma e la commedia troviamo il film Marty (1955) di Delbert Mann e Picnic (1955) di Joshua Logan.

All’insegna del dramma un gruppo di cineasti indipendenti realizzò Il piccolo fuggitivo (1953) un film in cui un bimbo si allontana da casa e trascorre ore di libertà tra la folla e i divertimenti della grande spiaggia di Coney Island. Ripensandoci, non furono drammi neanche gli imponenti colossi storici del cinema americano…

Quanti fazzoletti intrisi di lacrime in quelle sale buie dove la luce dello schermo illuminava volti intenti a cercare una consolazione alle intemperie della vita.  Ma perché perdere tempo a piangere per fatti che non ci riguardano o sono solo frutto di fantasia? Protestava qualcuno: al cinema ci si va per distrarsi e divertirsi…

L’umana esperienza del dolore è una delle situazioni in cui più evidente appare la molteplicità di fattori che concorrono a definire il vissuto soggettivo ed è ragionevole che il cinema se ne appropri, non solo per il modo diverso in cui una pena può essere esperita da  individui diversi, ma soprattutto perché il dolore non è definibile in base ad una sola dimensione.

Forse dietro la grande partecipazione ai film drammatici c’era un concetto base, un nodo culturale legato allo spirito dell’uomo, niente affatto ingenuo: a differenza dei razionalisti intuiamo un mistero in fondo alla realtà e la dote di chi attraversi con coraggio tante sofferenze diviene non solo la resilienza, ma la chiave di lettura di un’esistenza che può sempre riservare amore.

+ ARTICOLI

Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.