Al Pacino, quando incontrai l’antieroe del sogno americano

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Al Pacino sul set de Quel pomeriggio di un giorno da cani, 1975

Poliedrico, generoso, sensuale e disturbante, quando incontrai Al Pacino pensai che nessuno più di lui incarnasse l’antieroe del sogno americano.

Lo inquadrarono in una strada gremita di gente, eppure ci parlò di solitudine. Ad intendere il suo linguaggio del corpo, noi, dall’altra parte dello schermo, fummo certi di comprendere l’indole del personaggio che interpretava. Scrutandone lo sguardo ombroso realizzammo che la vita si nutre tenacemente di sogni per poi confrontarsi con la realtà…

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Al Pacino sul set de Quel pomeriggio di un giorno da cani, 1975

Come in quella sequenza che girò senza saperlo in una sala dell’aeroporto di Fiumicino: mi sembrò di essere catapultata in un film. Non lo ripresi davvero con la telecamera, ma lo rivedo nella mia mente come in una sequenza.

Avanzava trascinando un’ingombrante valigia, diretto agli uffici dell’aeroporto dopo l’atterraggio da New York. Si volse verso di me continuando a camminare e l’atmosfera divenne elettrizzante come quella di un film:
Il celebre divo si avvicina in carrellata a precedere, con angolazione laterale leggermente dall’alto, il viso rivolto verso la donna, l’incedere lento sotto il peso della valigia: la ripresa rallenta sempre di più, congelando gli attimi.

Parvero solo a me più lunghi? Indugiando nel suo sguardo, la scena mi sembrò buffa, ma non sorrisi. Forse dovrei raccontarvi di più.

Era seccato per il ritardo causato da un contrattempo in cui era incorso: “sigarette di marijuana”, aveva insinuato un addetto ai bagagli. Ma si sa, la gente racconta frottole sulle stelle del cinema e io invece voglio scrivere una storia vera. Di Al Pacino conoscevo poco, era distante anni luce, e non sapevo neanche che stesse frequentando gli stabilimenti di Cinecittà per una grande interpretazione.

Così ora mi rivolgerò a lui, ad Al Pacino, direttamente dalle pagine di questo giornale…

Quando attraversasti la mia visuale, io non ti avevo riconosciuto, se non fosse stato quel dipendente aeroportuale ad informarmi che eri proprio tu alla nostra destra, nella saletta deserta, prossima agli arrivi internazionali. Il tuo incedere tradiva nervosismo, peggio: eri furioso, secondo me.

A quel tempo fumavi sigarette alla menta, i fans lo sapevano da un pezzo, ma gli zelanti poliziotti chissà cosa avranno pensato di cartine ed erbe aromatiche. Forse a causa di quell’incidente avresti deciso di non mettere più piede in Italia, almeno fino ad un film su Enzo Ferrari, che, purtroppo per noi, non girasti. Tornasti sì, diversi anni dopo, per una produzione Gran Bretagna/Italia, Il mercante di Venezia (2004).

All’epoca del mio incontro correva l’anno in cui si concludeva la trilogia de Il padrino di Francis Ford Coppola, avrei potuto conoscerti negli studios di Cinecittà, invece tutto si svolse in quelle sale del terminal ed ebbe l’effetto di una folgorazione visiva.

Il Padrino, 1972

Le immagini scrivono la grammatica del cinema, è un concetto semplicissimo che Pacino riesce a rendere vividamente, mentre la cinepresa si avvicina. Il suo viso in dettaglio, i capelli sono morbidi, lisci e ondeggiano sulla fronte, le labbra socchiuse, gli occhi intensi e profondi: primissimo piano, primo piano e poi allargando a mezzobusto, piano americano, figura intera, fino a rintracciarlo in campo medio e a perderlo -come accadde a me- in campo lungo, lunghissimo…

Al Pacino nella nostra polvere di stelle è senza età, in grado di camminare raccontandoci la trama di una storia e, se ne incontriamo lo sguardo schivo, il suo volto si fa di pietra, nasconde emozioni che vorremmo decodificare, più ci avviciniamo, più vorremmo scavarvi attraverso, perché siamo persuasi che i suoi occhi non mentano mai: racconta la levata e il tramonto delle aspirazioni di un americano, un antieroe mai vile, che non disdegna gli ideali, ma che è stato sconfitto in partenza. Ed è di lui che vi parlerò.

Questo mostro sacro del cinema ha dato vita a personaggi indimenticabili che esprimono la dimensione umana in un mondo di violenza. E la sua tecnica di recitazione non fu solo frutto di quella preparazione dell’Actors studio, che condivise con Meryl Streep, Michael Cimino, Bob De Niro, ma di genuino istinto.

Alfred James Pacino, detto Sonny, nacque il 25 aprile del 1940 a Manhattan da genitori figli di immigrati siciliani. Il padre abbandonò presto la famiglia e la madre, dovendo lavorare, lo affidò alle cure dei genitori, nativi di Corleone.

Alla figura del nonno Gerardo, Sonny rimarrà legato fino a farsene ispirare nel film Un giorno da ricordare (1999), da centillinare come un vino d’annata. Pacino frequentò le sale dei cinema assieme alla madre e se appassionò fin da ragazzino, gettando le basi di quel desiderio di emancipazione che caratterizzerà le sue performance future.

Sfida senza regole, 2008

Dopo l’esordio sul grande schermo con Me Natalie (1969, di Fred Coe), il regista che per primo ne indovinò le potenzialità fu Jerry Schatzberg, mitico fotografo (di Bob Dylan, ma non solo), in un film straziante che parlò di droga e dipendenze, Panico a Needle Park (1971).

Nel 1972 Coppola lo sceglierà per un personaggio controverso, il figlio de Il padrino, destinato a raccogliere l’eredità del padre, interpretato dalla figura gigantesca di Marlon Brando. E Al se la cavò bene, anzi, benissimo.

Ne Lo Spaventapasseri (1973), ancora Schatzberg racconterà la storia di due vagabondi- interpretati da Pacino e Gene Hackman– non privi di ambizioni.

Misurarsi con la macchina del potere divenne possibile impersonando Serpico, in cui il protagonista non soccombe alle pressioni della società, mantenendo le sue aspirazioni di giustizia. Un mix esplosivo tra la sensibilità appassionata dei personaggi dei film di Schatzberg e quella rivendicazione acquisita nel venire a patti con l’altro sé: nel film di Coppola, Michael Corleone non può smettere di guardarsi le spalle.

Fu proprio con Serpico (di Sydney Lumet, 1973), tratto da una storia vera, che Pacino verrà consacrato volto simbolo del cinema di quel tempo.

In Dog day afternoon, sempre diretto da Lumet nel 1975, Pacino è già in grado di dettare le sue volontà e rifiuta di girare senza avere accanto il suo grande amico John Cazale tra azioni incalzanti, in un film coinvolgente e tristissimo, con la scena della folla che grida “Attica” assieme al rapinatore rimasta memorabile.

Nello stesso anno trionfa agli Oscar il Padrino parte seconda.

La tenacia di Al sfida i tempi e punta sull’ambiguità con Cruising (1980) di William Friedkin, regista de L’esorcista, famoso per rompere gli schemi e che infatti accese molte polemiche, con 40 minuti di girato che andarono perduti per sempre.

Norman Jewison, 6 anni dopo Jesus Christ Superstar, vuole Pacino in E giustizia per tutti (1979), in cui l’attore impersona un avvocato difensore che fa i conti con il suo senso morale.

Come osserverete, alcune pellicole non sono menzionate per motivi di brevità, ma ognuna aggiunge un diamante alla costellazione Pacino.

Fino al capolavoro di Brian De Palma, Scarface (1983) e poi il film storico, Revolution (1985), in cui l’attore sente il bisogno di cimentarsi. Si trattò di una pellicola che non riscosse abbastanza successo per compensare le spese di realizzazione, causando il fallimento di una gloriosa casa cinematografica e divenendo motivo di prudenza per i produttori di quegli anni. Certi episodi sono laceranti vissuti behind the scenes.

Lasciatasi alle spalle questa disavventura, Pacino approda più sexy che mai in Sea of Love dove fa scintille con Ellen Barkin che diviene stella del panorama internazionale (1989).

Dopo Dick Tracy e Il padrino parte terza, entrambi del 1990, girando un film l’anno, e spesso coautore del suo cinema, interpreta Profumo di donna (1992), remake del film di Dino Risi, dove esibisce il suo talento vincendo l’Oscar come migliore attore protagonista (ma come non ricordare la versione italiana di quel film con Vittorio Gassman?).

Giungiamo al mio film preferito, Carlitos Way (1993), condotto dalla voce narrante del protagonista, Carlito Brigante, pieno di vibrante malinconia, con alcune sequenze indimenticabili e un ritmo degno del maestro De Palma.

E’ la storia di un portoricano, ex detenuto per traffico di droga, che cerca di influenzare un destino già segnato; in lui emergono la coscienza di sé, l’amore per una donna e il sogno di una vita diversa, emozioni che lo indeboliscono nei confronti del corrotto avvocato Kleinfled – Sean Penn, irriconoscibile e bravissimo- e lo espongono alla vendetta di un nemico.

Con Heat, la sfida (1995), una sfida recitativa ci fu davvero con l’altra grande star del cinema, Robert De Niro.

Quando Al scrisse, diresse e interpretò il docudrama Riccardo terzo, un uomo, un re (1995), intervistò i passanti di New York e condusse la gente della strada a riscoprire Shakespeare a teatro. Intesi la sua passione unita al desiderio di rendere comprensibili i testi antichi, condividendo nel film le discussioni degli attori prima delle prove.

Donnie Brasco e L’avvocato del diavolo, entrambi usciti nel 1997, The insider e Ogni maledetta domenica del 1999, basterebbero per rispettare la nostra polvere di stelle.

Ma come non essere tentati di attraversare in un lampo un ventennio e ritrovare Al Pacino in The Irishman (2019) di Martin Scorsese o nei panni dell’agente hollywoodiano Marvin Schwartz in C’era una volta a Hollywood (2019), per approdare alla controversa serie tv in cui Pacino è Mayer Offerman, fondatore di un gruppo di cacciatori di nazisti in Hunters (2020)…

Al Pacino

La sua carriera riassume il percorso di un outsider che rivendica con orgoglio la sua identità e si esprime sempre più intenso, deciso a farci credere di star perdendo il controllo della recitazione, ma tenendola sempre saldamente in pugno.

Espressione dell’alienazione collettiva, con quella voce secca e brusca, merito di un’attenta sperimentazione, con un fisico che mai nulla concesse all’atletismo e al culto del corpo, è mattatore incontrastato dei suoi film.

Beh, Pacino è… Pacino.

Un amico assicurò che l’avrei reincontrato alla prima off-off Broadway della sua commedia, molti anni fa.

Ne ebbi ancora notizia quando un veterinario di New York raccontò di quella notte in cui l’attore, preoccupato all’inverosimile, l’aveva fatto condurre al suo attico perché uno dei suoi 5 cani stava male.

Fu allora che pensai che con Al Pacino avevo condiviso molto più di un film.

 

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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