Daimon – L’ultimo canto di John Keats. Il teatro che fa anima

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DAIMON – L’ultimo canto di John Keats, il testo di Paolo Vanacore portato in scena da Gianni De Feo, risuona profondamente nell’anima.
Anche in quella degli spettatori meno vicini a quei pensieri così straordinariamente raccontati  fra immagini (i quadri di Roberto Rinaldi), musica e canzoni, nel teatro – così – scarnificato da ogni finzione.

Risuona: come se, ad ogni passo, parlasse a te e a te solo dandoti la dimensione dell’umanità intera.

È la storia di James Hillman, psicanalista che – nel mondo in cui governano schemi e definizioni – viene detto “post-junghiano”, ma che in realtà ha costantemente guardato e studiato da altri punti di vista i significati di immagine e immaginario dando così vita a un nuovo concetto di “anima”, ovvero quel fattore umano sconosciuto che rende possibile il significato, che trasforma gli eventi in esperienza, che si comunica nell’amore e che ha un’ansia religiosa.

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Daimon – L’ultimo canto di John Keats, Gianni De Feo

Troviamo Hillman bambino, sulla spiaggia di Atlantic City dove vive nell’albergo gestito dai suoi genitori, lo vediamo confrontarsi con desideri, amicizie, bellezze, solitudine e carte geografiche fino all’arrivo di un piccolo villeggiante dagli occhi profondi. Un coetaneo con il quale scopre quella sensibilità, quasi spirituale, che ricercherà e lo accompagnerà per tutta la vita.

È il primo incontro con il daimon, quel compagno invisibile che – secondo Platone – viene dato in dono da Lachesi a tutte le anime pronte ad incarnarsi affinché possano compiere il destino scelto, pur se nel passaggio alla vita dimenticheranno tutto e rimarrà in loro solo l’orma di quel modello ineludibile.

Il daimon è sempre bambino: sia che si manifesti inconsapevolmente a 8 anni, sia che tu abbia la fortuna di reincontrarlo e lasciarlo vivere al tuo fianco in un sodalizio che ti guiderà a scegliere di continuo l’immagine che rappresenta il tuo posto sulla terra, il tuo destino. La tua vocazione.

E quella di Hillman si palesa lontano dalla sua città costruita sulla sabbia attraverso la scoperta dei sogni, con i ricordi, i viaggi e gli studi, ma soprattutto al momento dell’incontro con la poesia di John Keats nella quale, come in un dono inatteso si rispecchia, ritrova se stesso e il suo daimon dagli occhi profondi.

«Chiamate il mondo, vi prego, “la valle del fare anima” e allora scoprirete qual è la sua utilità. […] Dico fare anima intendendo per “anima” qualcosa di diverso dalla “intelligenza”. Possono esistere milioni di intelligenze o scintille della divinità, ma esse non sono anime fino a quando non acquisiscono identità, fino a quando ognuna non è personalmente se stessa…» scrive John Keatrs al fratello.

Per Hillman il fare anima diventa l’evoluzione di un pensiero psicanalitico, mentre per De Feo quella dello spettacolo.

Fare anima, infatti, è qualcosa di diverso dall’intelletto che guida le nostre scelte, le nostre gioie e i nostri dolori. Fare anima è un atto poetico, è tradurre in versi la comprensione di se stessi; è acquisire la propria, unica identità attraverso la poesia che è comprensione e creazione di immagini interiori.

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Daimon – L’ultimo canto di John Keats, Gianni De Feo

 

In scena ecco la tramutazione: l’attore si guarda e guarda con occhi diversi; con la sua voce e il suo ritmo fa fluire un’altra storia, cambia i gesti e gli sguardi, accende di nuova interpretazione musiche amate (Battiato, Giuni Russo…) prova a donare qualcosa agli altri esseri umani e all’universo.

Gianni De Feo è una certezza che, a ogni spettacolo, riesce a ricreare sulla scena la sospensione del pensiero, del fiato e del dubbio. Sa far scomparire tutto il resto e offrire la visione delle parole, l’immagine del significato (per rimanere nel tema hillmaniano).
La sua interpretazione non cessa mai di essere poetica, di suscitare visioni dal buio raccontando, nel suo monologo animato da una piccola folla, tutta questa vita e tutti i suoi possibili colori.

Hillman non vorrà mai essere considerato un guru spirituale; rimarrà legato alle sue letture – non omologate – della natura umana; resterà fuori dalle mode e dalle tendenze, saprà dire che gli schemi psicologici generalmente usati sono usurati, che la vita non procede linearmente tappa dopo tappa, come in una narrazione priva di trama.
Eppure riuscirà a vedere, in un crepuscolo d’autunno romano, lungo i vialetti del Cimitero Acattolico, le figure nebulose di Shelley e Keats, entrambi sepolti in quel luogo.

Qui giace un uomo il cui nome è scritto sull’acqua è scritto sul sepolcro di Keats. Hillman sa che il suo nome è stato scritto, invece, sulla sabbia.

Tutto portato nel vento della danza rotante da destra a sinistra, attorno al cuore.

 

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Daimon – L’ultimo canto di John Keats, Gianni De Feo

Daimon – L’ultimo canto di John Keats

  • di Paolo Vanacore
  • diretto e interpretato da Gianni De Feo
  • con l’amichevole partecipazione in voce di Leo Gullotta
  • arrangiamenti musicali di Alessandro Panatteri
  • videoarte Roberto Rinaldi
  • Produzione Ipazia Production
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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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