Barbablu. Il testo appassionato di Costanza Di Quattro in scena con Mario Incudine

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C’è qualcosa di sempre coinvolgente, magico, capace di farci trattenere il fiato e il giudizio nelle storie che provengono dalla Sicilia. Come se quell’isola, culla del mito, non smettesse mai di produrne.
Barbablu è una favola gotica che conosciamo tutti. Raccolta da Charles Perrault ne I racconti di Mamma Oca, del 1697, ha origini antiche e condivise con le narrazioni folcloriche di tutto il mondo (dall’Europa all’America, dall’India alla Giamaica…).
La sua struttura si divide tra il motivo delle mogli uccise e quello del divieto infranto e quest’ultimo ha costituito per anni la sola morale riconosciuta.

In questa narrazione univoca si è inserito il testo di Costanza di Quattro, messo in scena da Moni Ovadia e interpretato da Mario Incudine, riuscendo a diventare un nuovo paradigma in quanto sposta l’accento sulle donne e sulla brutalità usata contro di loro. Al tempo di Barbablu, a quello dei suoi antenati medievali, ai nostri giorni.

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Nasce in Sicilia questo testo che ci porta fra le donne uccise dal ricco e irascibile signore. Ognuna di loro ha il nome di un fiore: Rosa, Viola, Iris, Erica… e ognuna viene uccisa per un motivo futile, inutile. Per un motivo che si fa reale solo nell’anima contorta e provata del protagonista. Un motivo che, a volte, sembra finanche offrire un senso al crimine e all’orrore.

La capacità drammaturgica di trovare punti di vista che ruotano, come in un caleidoscopio, sulle possibili realtà promette introspezione e equilibrio, ma, una volta che le parole vengono rese tangibili e sono le tracce rosso sangue a interrompere l’integrità delle immagini di donna che popolano il palcoscenico, non rimane più spazio per comprensione o pietà.

Alle prese con un testo denso di immagini, parole e poesia, Moni Ovadia propone – per contrasto – una regia essenziale impreziosita da chiaroscuri inquietanti, giocata sui cambi d’abito, sui tagli luminosi, sulla musica, eseguita dal vivo da Antonio Vasta, sulle apparizioni, stagliate, di manichini e installazioni, sulla parola e sul canto.

Sul palco, Mario Incudine, utilizza i tempi e i parametri del cunto a lui caro per rendere contemporanea la favola. Eppure, nonostante la sua grande capacità di cantante e attore, sembra non riuscire ad arrendersi al personaggio. Lavora sull’arroganza, sulla rabbia, anche quando prova a comprenderne le psicologia. È come se rimanesse solo narratore e questo rende automaticamente il pubblico solo voyeur.

Ho avuto la sensazione, in parte confermata dalle parole dell’autrice che mi raccontava la complessità del lavoro, che Incudine in qualche modo non riesca fino in fondo a farsi vincere da Barbablu, a ritrovare se stesso nei suoi caratteri, a partecipare allo scempio, a farsi latore del buio.

Comprensibile, certo, perché non è facile per nessuno squarciare le cosce di una bambina fino a farne zampillare il sangue. Lui lo fa con gesti timorosi e persino aggraziati che però non ritornano la crudezza delle parole e non costringono a voltare la testa.

I numerosi strumenti, perlopiù popolari (organetto, zampogna, fisarmonica…) che l’ottimo Antonio Vasta porta in scena evocando, volta per volta, i caratteri delle donne uccise, infine, riescono a compiere quell’effetto potente e coinvolgente in cui l’attore si ritrova con il canto.

Così l’evocazione del contemporaneo, la manifestazione dell’attualità si compie anche senza quell’identificazione forzata, dolorosa e illuminante che però, forse, avrebbe cambiato l’anima degli spettatori.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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