Tavola tavola, chiodo chiodo. Lino Musella racconta l’urgenza del Teatro

Ad un giornalista che gli chiedeva «perché non dice mai a un attore bravo che è bravo?», Eduardo sorridendo rispose «ma se non lo sa da solo, è inutile che glielo dica». Speriamo che Lino Musella – autore e protagonista di Tavola tavola, chiodo chiodo, tornato in scena in questi giorni a Roma al Teatro Vascello dopo il successo della scorsa stagione –  sappia di essere lo straordinario fautore e interprete di un piccolo “miracolo” che si concretizza proprio nello spettacolo da lui scritto, diretto e interpretato per omaggiare il genio di Eduardo De Filippo.

Nato da un suo progetto condiviso con Tommaso De Filippo e tratto da appunti, articoli, corrispondenze e carteggi di Eduardo De Filippo, il lavoro di Musella – coadiuvato anche dalla collaborazione con Maria Procino per la ricerca storica, con Antonio Piccolo per la drammaturgia e sul fronte musicale con Marco Vidino, che lo affianca sul palco eseguendo dal vivo musiche originali appositamente composte per lo spettacolo – porta in scena proprio Eduardo, l’artista ma anche e soprattutto l’uomo, capace di parlare al pubblico anche a quasi 40 anni dalla morte.

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Foto Mario Spada

Non una parodia né un tentativo di imitazione – l’interpretazione di Musella è attenta, sentita e misurata, ricorda la voce roca di Eduardo ma non mira ad esserne forzatamente una copia o una triste macchietta – ma un omaggio ad uno dei più grandi attori e drammaturghi, non solo italiani, del Novecento e un racconto fatto di emozioni, di riflessioni, di parole e di lettere.
Quelle indirizzate alle istituzioni, quelle del discorso al Senato, quelle degli appunti e dei carteggi relativi all’impresa per il restauro e il mantenimento del Teatro San Ferdinando.

È il rumore del martello che batte ritmicamente sulle tavole del palcoscenico del teatro partenopeo – quello stabile ormai ridotto ad “un mucchio di pietre” dai bombardamenti del 1943 che il tipografo e proprietario, Giuseppe Golia, convinse Eduardo a far rinascere – in ri-costruzione a segnare il ritmo della narrazione. È su quelle macerie che, come la leggendaria fenice, rinasce il teatro e l’arte.

Tavola tavola, chiodo chiodo sono, infatti, le parole incise su una lapide del palcoscenico del San Ferdinando che Eduardo erige a Peppino Mercurio, che per una vita fu il suo macchinista e che tavola dopo tavola, appunto, era stato il costruttore di quello stesso palcoscenico.

Un progetto fortemente voluto dall’attore e maturato dalle tante riflessioni emerse, durante la pandemia, sul mondo dello spettacolo e sulle sue sorti.

«In questo tempo mi è capitato di rifugiarmi nelle parole dei grandi: poeti, scrittori, drammaturghi, filosofi, per cercare conforto, ispirazione o addirittura per trovare, in quelle stesse parole scritte in passato, risposte a un presente che oggi possiamo definire senza dubbio più presente che mai»,  scrive Musella nelle sue note.

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Foto Mario Spada

«È  nato così in me il desiderio di riscoprire l’Eduardo capocomico e mano mano ne è venuto fuori un ritratto d’artista non solo legato al talento e alla bellezza delle sue opere, ma piuttosto alle sue battaglie donchisciottesche condotte instancabilmente tra poche vittorie e molti fallimenti.

Faccio parte – continua – di una generazione nata tra le macerie del grande teatro e che può forse solo scegliere se soccombere tra le difficoltà o tentare di mettere in piedi, pezzo dopo pezzo, una possibilità per il futuro, come ermeticamente indicano quelle parole incise nel teatro di Eduardo che in realtà suggeriscono un’azione energica e continua.

Questo grande artista è costantemente impegnato a ‘fare muro’ per smuovere la politica e le Istituzioni e ne esce spesso perdente, in parte proprio come noi in questo tempo, ma anche da lontano non smette mai di alzare la sua flebile, roboante voce e mi piace pensare che lo faccia proprio per noi».

Il San Ferdinando e più in generale il teatro eduardiano lo vediamo nascere e rinascere pezzo dopo pezzo, asse dopo asse, davanti ai nostri occhi grazie anche ad una scenografia che allo stesso tempo ricorda e si compone del mobilio di uno studio privato (uno scrittoio, un camerino che chiuso si trasforma in un capiente baule), di un balcone (che ricorda da vicino quello di Questi fantasmi!) che si trasforma poi in altare e  cella e del cantiere di uno stabile teatrale in fase di ristrutturazione con, al centro del palco, il plastico in scala, in legno materico e stoffa rossa, di un simbolico Teatro San Ferdinando che, legno dopo legno, Eduardo incolla e monta dando forma e cuore  a quella creatura pulsante che è l’arte teatrale.

A completarne la costruzione, le voci, i gesti e le parole di una riflessione sulla necessità e l’urgenza del teatro come momento e strumento di condivisione con il pubblico ma anche l’esigenza produttiva e artistica cui sono strettamente legati la sopravvivenza del mestiere di attore.

Come lo stesso Eduardo tiene a sottolineare, infatti, nel suo nascente teatro «le cure più attente sono state riservate al palcoscenico» ma anche ai camerini perché – come a sue spese ha imparato nel corso della sua lunga carriera artistica iniziata in giovanissima età –  è essenziale che non venga meno l’attenzione e la tutela nei confronti dell’attore.

C’è la lettera al fratello Peppino, alla sorella Titina e quella di congratulazioni da parte di Luigi Pirandello. Ci sono gli affetti, i figli e le incomprensioni familiari e coniugali legate anche alle prolungate assenze. Cè Napoli e c’è la vita, in ogni suo aspetto, quella reale e quella portata in scena che altro non è che il frutto dell’osservazione costante della vita quotidiana.

C’è, nel carteggio di Eduardo, l’interesse per i giovani detenuti e la speranza che, una volta scontata la pena, possano trovare un posto nella società e non essere lasciati ai margini.  Ci sono gli affanni quotidiani con le banche e con la burocrazia per trovare i soldi, per saldare i debiti e risolvere le incombenze legate alla gestione dello stabile.

C’è il teatro, la sua necessità e urgenza per la dignità della sua città ma anche e soprattutto per l’essere umano e la società civile. Il teatro è importante? Serve alla società? La migliora e producendo non solo cultura ma allenando il muscolo del cuore e proteggendo l’umanità, in parte, anche da se stessa? A che cosa serve questo teatro?

Sono queste le domande che sembra porsi Musella-Eduardo di fronte alle continue risposte negative alle richieste di fondi e attenzioni da parte di istituzioni e banche che si dichiarano disponibili a concedere prestiti e mutui solo per “opere di pubblico interesse”.

Il teatro non è quindi un’opera di pubblico interesse? L’accorata risposta – verbale ed esistenziale – di Eduardo è un sonoro sì. La stessa che dava – e che darebbe ancora oggi – a quanti sostengono che il teatro ormai è morto, perché «fino a che ci sarà un filo d’erba sulla terra, ce ne sarà uno finto sul palcoscenico».

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Foto Mario Spada

«Un cadavere putrefatto», quello che Eduardo De Filippo si trova davanti e che racconta nella lunga ed accorata lettera sulla situazione del teatro in Italia. che nel 1959 rivolge sulle pagine di Paese Sera all’allora ministro della Cultura, Umberto Tupini.

Guarda  «con sgomento» al vuoto che «di anno in anno si va facendo intorno al teatro in Italia e alle decine di migliaia di spettatori italiani che – come le statistiche dimostrano inequivocabilmente – ogni anno si staccano per sempre dal teatro senza che altri prendano il loro posto; […] è con angoscia che penso, guardandomi intorno con l’occhio clinico del teatrante incallito, a tutto quello che si va facendo sistematicamente per raggiungere l’ormai incombente anno zero del teatro italiano, e a tutto quello che non si fa e che si dovrebbe fare per allontanare la minaccia».

Un corpo agonizzante da cui la società non riesce più a nutrirsi, perché «a lungo andare ogni possibilità di comunicazione fra l’arte e l’umanità cessa se si affievolisce fino a scomparire la consuetudine degli uomini di nutrirsi, oltre che di fettuccine, di competizioni sportive, di canzoni e di sermoni, anche delle emozioni, degli insegnamenti e del divertimento che l’arte può offrire».

Lancia chiaramente la sua accusa, denuncia la posizione –  «fra le più ambigue, non solo assai somigliante alla posizione del defunto stato fascista, ma anche assai peggiore» – dello Stato nei confronti dell’arte teatrale.

Uno Stato che «con il favoreggiamento statale di persone incredibili le quali non possono sfornare niente altro che film incredibili (film, cioè, che finiscono sempre per centrare questo obiettivo: concimare la stupidità e la volgarità, abbassare il livello intellettuale e spirituale della popolazione, deprimere i costumi)» lascia sopravvivere un teatro gradito, non certo al pubblico che reagisce disertando gli spettacoli, quanto «un pseudo-teatro, gradito alla ristrettissima cerchia dei beneficati, oltre che agli sprovveduti benefattori».

Tavola dopo tavola, chiodo dopo chiodo, parola dopo parola, Eduardo-Musella ‘difende’ il teatro e la sua sopravvivenza.

«Mi ha affascinato scoprire come per Eduardo de Filippo tutte le cose sono sempre state profondamente intrecciate. Il suo rapporto tra teatro-vita, teatro-politica, teatro-vita, teatro-teatro», spiega, in diverse interviste, Musella che aggiunge: «A me piace pensare che Tavola tavola, chiodo chiodo sia un lavoro politico perché  la “questione teatro” e la riflessione sul teatro è indirizzata al pubblico, è indirizzata allo spettatore e quindi non è una rivendicazione intestina tra noi addetti ai lavori.

E questa è stata anche la mia grande sorpresa nel corso di queste repliche. Quando venne annunciata (per la pandemia, ndr) la chiusura dei teatri, accorsero in moltissimi a riempire il teatro di Eduardo e lo spettacolo.

In questo lavoro ci sono molti dettagli che riguardano la mia categoria, molti dettagli che riguardano il lavoro dell’attore e anche quello che è la gestione di un teatro, le difficoltà economiche, le rivendicazioni e le istanze dirette proprio al ministero dello spettacolo.

Ho scoperto con grande gioia che il primo spettatore è proprio il “pubblico normale”, che è quello che si emoziona anche di più. L’addetto ai lavori magari si indigna e ritrova in quella rabbia la sua, invece lo spettatore se ne torna a casa con una domanda: questo teatro è importante per la società o no?

Penso che lo spettacolo abbia i meriti di innescare qualcosa che, però, succede soprattutto in platea. Forse è questa una delle grandi forze del teatro di Eduardo, quello di rimbalzare continuamente tra quello che fa in scena e quello che succede in platea. È una grande capacità di De Filippo, più che di altri autori».

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Classe 1987. Romana di nascita, siciliana d’origine e napoletana d’adozione. Giornalista professionista, comunicatrice e redattrice freelance. Da sempre appassionata di (inter)culture, musica, web, lingue, linguaggi e parole. Dopo gli studi classici si laurea in Lingue e comunicazione internazionale e in seguito, presso l’università “La Sapienza” di Roma, si specializza in giornalismo laureandosi con una tesi d’inchiesta sul giornalismo in terra di camorra. Ha poi conseguito un master in Giornalismo (biennio 2017 – 2019) presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Giornalista per caso e per passione, ufficio stampa e social media manager per festival, eventi ed associazioni in particolare in ambito culturale e teatrale oltre che per Europride 2011, Trame – Festival dei libri sulle mafie e per Save the Children Italia (2022). Collabora con diverse testate occupandosi in particolare di tematiche sociali, culturali e politiche (dalle tematiche di genere all’antimafia sociale passando per l’immigrazione, il mondo Lgbtqia+ e quello dei diritti civili). Vincitrice della borsa di studio del premio “Giancarlo Siani” per l’anno 2019.
Fotografa, spesso e (molto) volentieri.

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