Marocchinate. L’altra faccia della liberazione. Quella parte di Storia che non sai.

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È «una storia che se non te la raccontano non la sai, una di quelle che se non sei di quelle parti non la conosci. Successa in una terra che se non hai parenti o amici, non ci vai» quella raccontata ne Le marocchinate. L’altra faccia della Liberazione di Simone Cristicchi e Ariele Vincenti per la regia di Nicola Pistoia, andato in scena al Teatro Vittoria di Roma.

A raccontarla dieci anni dopo la fine della guerra è il pastore Angelino (Ariele Vincenti) in una lunga chiacchierata con Enzo Biagi, in qualità di giornalista di Epoca.

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Foto di Elisa Palombi

In scena è solo – Biagi, il “professore” è uno spettatore invisibile del racconto, al pari di chi siede in platea – e la scenografia è essenziale (due balle di fieno che fungono da sedili, un bastone e un gilet), ma ad aggiungere dettagli sono i suoi racconti e i preziosi inserti sonori musicali e di racconto (i canti popolari, le voci delle donne, i lavori parlamentari e l’intervento di Biagi in Rai sull’accaduto).

A sipario appena aperto Vincenti fa la sua comparsa in scena, arrotola le maniche della camicia, indossa il gilet e la coppola ed impugna il bastone. Entra nel personaggio, entra in quella tarda primavera del 1944, portando il pubblico con sé.

La pièce, nata da un lungo lavoro di ricerca etnografica durato oltre un anno, porta in scena i terribili e decisivi giorni successivi allo sfondamento da parte degli Alleati della linea di Montecassino, ultimo baluardo tedesco.

Se la guerra è finita (o quasi) e molte zone di Italia sono ormai libere dall’oppressione del nazifascismo, non è così per le popolazioni di gran parte del basso Lazio, ancora in attesa di quel «pane bianco che profuma di pace», delle sigarette e della cioccolata.

Non sanno, però, che prezzo pagheranno per quella liberazione: «aspettavamo ji salvatori… so’ arrivati ji diavoli!».

«Oltre quei monti, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c’è una terra larga e ricca di donne, di vino, di case. Se voi riuscirete a passare oltre quella linea senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro generale vi promette, vi giura, vi proclama che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete sarà vostro, a vostro piacimento e volontà.

Per 50 ore. E potrete avere tutto, fare tutto, prendere tutto, distruggere e portare via, se avrete vinto, se ve lo sarete meritato. Il vostro generale manterrà la promessa, se voi obbedirete per l’ultima volta fino alla vittoria».

Questa la promessa che il generale Alphonse Juin, viste le difficoltà nello sfondamento della “linea Gustav”, (i 230 km di barriera difensiva – «trincee e bunker tirati su con il sudore di noi contadini Ciociari. Chi si rifiutava, un colpo di pistola in testa. […] Ma vi rendete conto, Enzo, che dalla conquista di questa povera terra nostra, di pastori e di contadini, dalla conquista di questo pugno di montagne e di paesini dimenticati da Cristo dipendeva il destino della seconda guerra mondiale e tutto l’avvenire del mondo?» – dal Tirreno all’Adriatico voluti da Hitler per fermare l’avanzata avversaria) avrebbe rivolto alle truppe coloniali (i cosiddetti goumier, soldati di nazionalità marocchina, inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia tra il 1908 e il 1956 con una formazione più idonea ad una guerriglia di montagna e quindi a riuscire lì dove americani e inglesi avevano fallito per quattro mesi subendo anche quasi quattromila perdite) spingendole al saccheggio.

In pochi giorni linea Gustav è sfondata, i soldati pretendono e prendono la loro ricompensa: razzie, furti, omicidi e stupri si susseguono nell’intera area. Il diritto di preda è concesso, il massacro ha inizio. Cinquanta ore (e oltre) in cui fanno razzia di tutto quello che trovano: oro, case, vino, bestie ma soprattutto donne (anche se gli stupri non risparmiano nemmeno uomini e bambini), «cinquanta ore di carta bianca per avere abbattuto quella cazzo di linea Gustav».

Castro dei Volsci, Castelforte, Vallecorsa, Patrica, Pofi, Isoletta, Lenola, Supino, Morolo, Sezze, Pico, Roccagorga, ormai libere dai tedeschi, per più di venti giorni diventano terra di scorreria. Esperia e Ausonia contano più di 800 donne vittime di stupro: «madri, figlie, nonne, bambine. Neanche una hanno avuto la pietà di graziarla! Le chiamavano haggiala, puttane. Pure!».

Proprio una prostituta – come ricordato anche da Biagi durante la sua trasmissione televisiva (Film Story: stupro – 1983, ndr) – passerà alla storia, non purtroppo il suo nome, perché in sella alla motoretta di un postino andò di paese in paese ad avvertire le altre donne del pericolo («Scappate che arriveni ji marrocchini, scappate!»).

Nel suo lungo e lucido racconto-monologo, iniziato con i coloriti episodi della semplice ma faticosa vita contadina in Ciociaria prima che arrivasse la guerra a sconvolgerla, Angelino si accalora nel ricordare le sofferenze imposte alla popolazione.

Con il suo italiano stentato e colorato di parole ed espressioni dialettali, ricorda il dolore delle marocchinate – tra cui la sua amata Silvina – che non solo subirono lo scempio della violenza fisica ma anche quello dello stigma sociale, dei paesani e dei loro mariti tornati dalla guerra:

«era un marchio a fuoco, come le pecore, come le mucche. Condannate a vita, l’ergastolo gli hanno dato.

E le malattie che hanno lasciato i marocchini? Le medicine non arrivavano, la penicillina costava tanti soldi. E chi ce li aveva i soldi? Intanto però si moriva! Prima le vecchie, poi le bambine, poi le ragazze, le donne.

Ma anche quelle che si sono salvate non pensate che stanno bene. Tirano a campare, perché hanno l’anima morta, perché certe cose non ti si cancellano dalla testa, ti ritornano sempre, di giorno e di notte. Quando ti sporcano l’anima non ci sta niente che ti può guarire».

Dopo i sorrisi e momenti teneri arriva, come un pugno in pieno viso, lo sdegno, lo sgomento e la rabbia che l’intensità dei testi e della indubbia capacità recitativa di Vincenti fa arrivare forte e chiaro anche al pubblico insieme al senso di impotenza e di indignazione per quello che – come accade, ahimé, in ogni conflitto ancora oggi – è passato alla storia come un ‘danno collaterale’ i cui autori sono stati anche premiati e insigniti per il loro eroismo.

Una vicenda “dimenticata”, forse anche volontariamente a livello politico, in quanto rappresenta una macchia nella storia della Liberazione dal nazifascismo. Vicenda raccontata in una pietra miliare del cinema italiano: il film La ciociara,  per la regia di Vittorio De Sica, tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia e interpretato magistralmente da una giovane Sophia Loren, che si aggiudicò il premio Oscar come migliore attrice protagonista, e Jean-Paul Belmondo.

È un racconto e una messa in scena di memoria quella di Cristicchi, Vincenti e Pistoia che portano avanti un valido esempio di teatro civile e di impegno che si serve del linguaggio e delle forme dello spettacolo affinché «le loro parole diventino le nostre parole, diventino la nostra storia» perché, come ricorda nel finale Vincenti dismessi i panni (il gilet, il bastone e il dialetto) di Angelino e presi quelli attuali di suo nipote Francesco che dal nonno ha ereditato il senso e il bisogno di memoria, «l’uomo che non onora il passato non è degno di vivere il presente e sarà un incapace per il futuro».

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Classe 1987. Romana di nascita, siciliana d’origine e napoletana d’adozione. Giornalista professionista, comunicatrice e redattrice freelance. Da sempre appassionata di (inter)culture, musica, web, lingue, linguaggi e parole. Dopo gli studi classici si laurea in Lingue e comunicazione internazionale e in seguito, presso l’università “La Sapienza” di Roma, si specializza in giornalismo laureandosi con una tesi d’inchiesta sul giornalismo in terra di camorra. Ha poi conseguito un master in Giornalismo (biennio 2017 – 2019) presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Giornalista per caso e per passione, ufficio stampa e social media manager per festival, eventi ed associazioni in particolare in ambito culturale e teatrale oltre che per Europride 2011, Trame – Festival dei libri sulle mafie e per Save the Children Italia (2022). Collabora con diverse testate occupandosi in particolare di tematiche sociali, culturali e politiche (dalle tematiche di genere all’antimafia sociale passando per l’immigrazione, il mondo Lgbtqia+ e quello dei diritti civili). Vincitrice della borsa di studio del premio “Giancarlo Siani” per l’anno 2019.
Fotografa, spesso e (molto) volentieri.

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