RivaDeAndrè. La poesia degli incontri mancati tra il pallone e la chitarra

Presentando, a Milano Lui, io, noi, l’unica deroga pubblica alla messa su carta in prima persona a proposito di Fabrizio De Andrè, Dori Ghezzi disse: “quello che conta nella vita sono gli incontri”.
La più recente perla – e val la pena dichiararlo subito – del talento affabulatorio di Federico Buffa, sovverte o precisa le parole della signora De Andrè proprio raccontando (anche) di lui.
Quello che conta sono gli incontri mancati, sembra dire RivaDeAndrè, in scena al Teatro Giuditta Pasta di Saronno in coda a un tour lungo due anni. O brevi come un lampo – o il Rombo di un tuono – dentro cui, però, succede tutto.

Ormai (quasi) nessuno lesina più la qualifica di poeta della canzone, al bambino nato sulle note del valzer campestre di Gino MarinuzziValzer per un amore – nell’ultimo giorno della sua storia in cui il Genoa – amore di tutta una vita, e forse oltre – è stato in cima alla classifica di Serie A.

foto di Luca Pasqualini

All’altro, Luigi Riva detto Gigi da Leggiuno, profonda provincia di un varesotto fatto per i ciclisti, barone rampante in erba sul fico di famiglia, la qualifica di poeta del pallone l’ha data niente meno che Pier Paolo Pasolini. E scusate se è poco. Un altro che del calcio ha fatto una fede. E forse ha a che fare proprio con la fede, (sicuramente, così la pensava Fabrizio) la passione per il calcio, che poi racconta sempre molto di più.
Se si vuole, racconta mondi.

E Federico Buffa, che sui racconti che partono dai palloni, prima a spicchi e poi sui prati, ha costruito una vita e una carriera di narratore di razza, lo sa bene. La passione può persino raccontare il legame, tra i mondi, tra sacro e profano, come Bocca di Rosa. Tra la vita e quello che c’è al di là. Tesse quel filo di parole che ogni giorno proviamo a salvare tra noi e chi non può più rispondere.

Forse soltanto dentro la cabina telefonica di un “telefono del vento” (Laura Imai Messina a questa storia, da cui Buffa parte, dentro una due cabine rosse e blu, come Genoa e Cagliari, ha dedicato un bel romanzo, Quel che affidiamo al vento) che dal Giappone porta la vostra voce in qualsiasi luogo e forma vogliate immaginare di Eden.

immagine eèr RivaDeAndrè. La poesia degli incontri mancati tra il pallone e la chitarra

E allora porta anche in Sardegna che, ebbe a dire Fabrizio “è il luogo che consiglierei a Dio come paradiso”. È qui che Fabrizio e Gigi diventano una cosa sola con la leggenda e con la terra a cui sceglieranno di appartenere. Ma non è qui che si incontrano. Il loro incontro avviene prima, nel 1969: Gigi Riva fa una deviazione, dopo aver fatto un altro passo nella cavalcata che in quella stagione consegnerà al suo Cagliari uno scudetto mitologico. Fabrizio lo aspetta nella sua casa che guarda il mare e chissà, forse già sa che tra una manciata di anni, nella Sardegna in cui Luigi da Leggiuno non voleva andare, lo raggiungerà.

È un incontro che dura una manciata di ore, davanti a un bicchiere di whisky e un mare di sigarette – segnate, manco a dirlo, da due righe rossoblù.
In Sardegna, invece, si mancheranno, un po’ per scelta un po’ per timore: Gigi Riva racconterà di essere stato tra i tanti che negli anni si inoltreranno nella campagna di Tempio Pausania per andare a cercare il cancello dell’Agnata, dove per decenni mancherà la luce elettrica ma non un pezzo di formaggio e una stretta di mano per chiunque vada a bussare alla porta di casa De Andrè.
E tanti, tantissimi ragazzi lo faranno.

Gigi Riva no. Lui, come Fabrizio, è un poeta del silenzio. Due così non avrebbero, non hanno avuto bisogno di parlarsi. Perché è dentro quel silenzio, in realtà, che può avvenire tutto, è il silenzio a popolarsi di presenze. Soprattutto quelle che parlano con il suono del vento. “Il mio più grande desiderio? – risponderà Fabrizio a Gianni Minà – per un attimo, in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, reincontrare mio padre”. E Gigi da Leggiuno avrebbe potuto dire la stessa frase, pensando a papà Ugo, perso prima dei dieci anni, e mamma Edis, che lo lascia quando ne ha appena compiuti venti, prima di vederlo diventare Rombo di Tuono, l’eroe popolare che sarà, e ancora oggi è, in Sardegna, e poi in continente, poeta di un calcio che non c’è più.

Ma gli incontri mancati a cui il silenzio dà voce non sono solo gli affetti più vicini a due poeti uniti dal rosso e dal blu che riverberano – in luce e scenografia – sul palcoscenico. Nello spazio vuoto tra una chitarra come sospesa in attesa del suo proprietario e il tavolo di un incontro, prendono vita tutti, i maestri e gli amici, da Brassens a Luigi Tenco, gli amori sognati e perduti, da Juliette Greco a Gigi Meroni.

Ed è questo a dare ad aggiungere valore allo spettacolo che Buffa firma insieme a Marco Caronna, musicista e cantautore, che fa rivivere a proprio modo e senza timori reverenziali le parole senza tempo di Fabrizio,  con Alessandro Nidi al piano a tessere una trama sonora emozionante ed evanescente, come gli ospiti che occhieggiano in video a fondo scena, tra cui compare uno straordinario Paolo Fresu la cui tromba canta No potho reposare.

Il viaggio di RivaDeAndrè, quasi due ore che scorrono via impetuose eppure rassicuranti come il mare che unisce Gigi e Fabrizio non è quasi mai, non è soltanto una pur affascinante traversata per lampi di biografie dell’epica popolare di due “mostri sacri” (che certo non avevano alcuna intenzione di esserlo).
È l’affresco di un tempo. O forse persino di una postura verso il mondo. Fatta di silenzio e discrezione, di “poche idee, ma in compenso fisse”.

Di una rete di legami e di rimandi, dove la Viggiù del collegio da cui il piccolo Luigi cerca di scappare è la stessa che consegnerà alle mani dei nazifascisti una bambina di tredici anni, che di nome fa Liliana Segre.
Dove la Barbagia è una terra violentata dalla colonizzazione, come il Sand Creek dei nativi americani, a cui reagire come si può, persino costringendo una giovane coppia per quattro mesi al freddo e alla paura all’addiaccio del Supramonte, ma senza fargli mancare mai i risultati del Genoa.

Tutto si tiene insieme in un modo che più naturale non potrebbe esserlo, e a consentirlo è l’elemento che unisce il teatro e la canzone: la voce. La voce sciamanica di Fabrizio De Andrè che riverbera sul palco, e nel corpo che congiunge teatro e calcio.

Ci vuole la poesia che ha il gesto dell’atleta, per restituire a una qualunque domenica pomeriggio la forza di un “canto d’amore” come questo spettacolo, con il pubblico che ringrazia in piedi. Perché se il calcio – o forse, quel calcio lì, che adesso non c’è più – era l’ultimo rito laico, e la canzone è la forma più autentica della preghiera, raccontare questi due amici fragili e i loro silenzi, dando loro forma con un passo incantatore e raffinato che occhieggia alla poesia (che nasce per la voce, non per la pagina) è qualcosa che ha a che fare con il misticismo.

O forse, semplicemente, col ritrovare la nostra parte migliore. Quella dei bambini che sognano. Ad esempio, dietro a un pallone.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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