Zbyněk Sedlecký il tempo la pittura. Intervista all’artista

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La riflessione sul tempo, sulle temporalità e sullo spazio costituisce una parte preponderante del lavoro di Zbyněk Sedlecký, artista ceco che appartiene a una generazione che si affaccia sulla scena artistica all’inizio del terzo millennio.

Mi viene in mente Michelangelo Pistoletto, quando affermava che la figura di un uomo sembrava farsi avanti, come viva, nello spazio della galleria, “ma il vero protagonista era il rapporto di istantaneità che si creava tra lo spettatore, il suo riflesso, e la figura dipinta, in un movimento sempre presente che concentrava in sé il passato e il futuro a tal punto da far dubitare della loro stessa esistenza: era la dimensione stessa del tempo”. (M. Pistoletto, Oggetti in meno, Galleria La Bertesca, Genova 1966).

Così, chiedo all’artista

Come vedi questa dimensione del tempo nel tuo lavoro?

Mi piace la tua domanda perché il tempo è un elemento importante nella mia pittura, a diversi livelli. La pittura, in quanto tale, ferma il tempo nel suo modo caratteristico immortalando i tempi passati e funziona nella memoria generale come una sorta di valore permanente e infinito rispetto all’uso di uno schizzo fotografico, in cui l’osservatore si ferma per un inopportuno centesimo di secondo. Questo avviene anche nella lettura delle singole immagini che raffigurano oggetti pittorici più o meno classici, come una figura, una natura morta.

Io percepisco più che altro il contesto di una storia non raccontata.
Il tutto è poi ambientato in una certa atemporalità, che però richiama fortemente il passato personale e, di fatto, collettivo.

Tra l’altro, una volta ho usato queste parole come titoli di mostre: Day and night, The high noon, August – che si riferivano più alla limitazione/indeterminatezza del tempo che al contenuto dei singoli file di immagini.

Sono tentato di pensare al tempo anche perché le persone associano di solito questa grandezza alla performance, al teatro e al cinema. Il tempo in un dipinto è il tempo del processo pittorico, o la sosta dello spettatore o ciò che accade tra le righe all’interno del quadro? Non lo so.

Forse il tempo è tutti questi aspetti insieme, accentua anche il lato contemplativo dell’opera d’arte. Come nelle tue storie non raccontate, nature morte, figure.

Henri Bergson diceva che se il nostro intelletto spazializza il tempo, lo concepisce come un corpo fisico e lo divide in segmenti uguali. Esiste anche un tempo interiore, della coscienza, in cui i vari momenti si compenetrano a vicenda. Vedo questa “durata interiore” emergere dalle tue opere.

Sì, nel mio approccio il tempo scorre all’interno del quadro come se avesse un ritmo proprio, forse a una velocità diversa da quella dello spettatore, che non sembra affatto correre.

Allo stesso tempo, il mio lavoro con questo mezzo è abbastanza intuitivo, non è in qualche modo artificioso.

In ciò che raffiguro ci troviamo da qualche parte nel mezzo della storia e non c’è un inizio o una fine del processo… siamo proprio nel mezzo.

Potremmo definirla una “temporalità autentica”. Come per Marcel Proust, possiamo dire che il tempo, o meglio l’atemporalità, è uno strumento ma anche un soggetto delle tue opere? Quasi a voler raccontare il tempo attraverso il tempo. Come a dire che più che rappresentare il tempo, tendi a presentarlo?

 Sì, lavoro in modo che il soggetto dei miei quadri sia qualcosa che sta dietro.

Apparentemente tutto ciò che è nel quadro è comprensibile, realistico, si può dire. Probabilmente mi interessa qualcosa come combinare più immagini, guardare da più lati; in realtà cerco di percepire l’importanza tra le cose…

Petr Vaňous una volta ha scritto che il mio lavoro non mostra “nulla estrapolato dal contesto”, che mi piace come definizione della mia ricerca.

L‘ambiente principale dei tuoi dipinti è il tuo studio. Sembra che tu crei una sorta di “terreno scenico”, un non-spazio.
Cosa rappresenta il tuo studio come luogo nei tuoi dipinti?

Nel lavoro contemporaneo lo studio svolge il ruolo di ambiente neutro, che può essere allo stesso tempo uno studio cinematografico, un fondale e un vero e proprio laboratorio. Mi permette sia un’escursione nel passato della rappresentazione di questi spazi, sia una base per il mio lavoro con i modelli e per gli still lifes.

Quindi ti approcci come un vero proprio scenografo. Cos’è più importante per te in questo processo di costruzione dell’immagine?

Uso un modello o degli oggetti per una sorta di costruzione compositiva, di architettura. Lavoro con la luce, ma non illustro direttamente una storia letteraria. Piuttosto cerco di creare una base in modo che possa accadere qualcosa, una situazione spontanea che poi fotografo, come una sorta di schizzo per il dipinto finale.

Prima ero un vero e proprio osservatore non partecipante, oggi sono più attivo anche nel comporre la situazione di base. Anche se mi interessa soprattutto quello che succede quando non ho più il pieno controllo sulle cose.

Come lavori esattamente con i modelli e lo still life?

Scelgo gli oggetti che dipingo dalle cose che mi circondano, che mi capita di incontrare… Mi affascina il momento in cui un oggetto banale può trasformarsi in una parte importante della narrazione visiva.

Nella tua formazione c’è anche l’incontro con Jiří Načeradský e Jiří Sopko. Quanto sono stati importanti per te e come hanno influito sulle tue scelte artistiche?
E, pensando anche anche agli artisti della tua generazione, al tuo contesto culturale e all’arte che ti ha influenzato, qual’è il tuo pensiero sul fare pittura oggi?

Jiří Načeradský è stato un importante solitario che ha portato un vento fresco di pittura figurativa nell’ambiente ceco a partire dagli anni Sessanta. Durante il regime totalitario, fu uno degli autori che seguirono le pratiche delle belle arti all’esterno e allo stesso tempo un autentico percorso ceco alle influenze della pop art, dell’espressione, dell’art Brut, ecc.

Personalmente posso dire che lui era piuttosto intransigente e severo come insegnante, ma studiare nel suo studio era fonte di ispirazione e il suo lavoro è molto apprezzato nella Repubblica Ceca.

Jiří Sopko è un autore della stessa generazione ed è considerato un importante colorista ceco. Come responsabile dello studio dell’AVU era l’opposto di Načeradský… lasciava che gli studenti si confrontassero molto liberamente con i problemi del loro lavoro e i suoi interventi pedagogici erano forse precisi, ma minimalisti… Sopko è più un filosofo popolare taciturno, mentre Načeradský era molto energico, anche in modo un po’ autodistruttivo.

Durante i miei studi all’AVU con Sopko era importante anche il suo assistente Igor Korpacewski, un pittore brillantemente introverso della generazione di mezzo.
Rispetto diversi autori della mia generazione nell’ambiente ceco…

Mi piace Daniel Balabán di Ostrava tra i più anziani, Jaromír Novotný, o i più giovani Adéla Jánská, Klára Hosnedlová, Daniel Pitín e altri che mi sono vicini tra i miei coetanei…
Al di fuori della scena della Repubblica Ceca, ammetto di essere interessato all’ambiente e al lavoro della mia generazione che si occupa di un’arte che continua o riflette in qualche modo il rapporto con la pittura pre-moderna.

Quella che oggi viene chiamata Scuola di Lipsia o di Cluj. In relazione alla realtà post-socialista dell’Europa centrale e orientale, mi piacciono Marius Bercea, l’intimità di Viktor Man nei piccoli formati e la connessione leggibile dell’immagine storica con il presente di Nicola Samorì. Mi piacciono anche i primi autori fotorealisti come Vija Celmins, ma anche i più famosi Chuck Close, la figurazione americana di Erik Fischl e gli autoritratti di Joan Semmel.

In Europa, mi piace come si avvicinano all’eredità del passato in Belgio, in Olanda, apprezzo Michaël Borremans, Johannes Kahrs o i grandi e suggestivi dipinti marini di Thierry De Cordier.

Parlando di Borremas, in un’intervista lui una volta dichiarò di non dipingere mai su una tela bianca, trovandola brutta e accecante e  che dare una mano di colore alla superficie gli permette di avere già un punto di partenza. Tu invece come ti approcci alla tela bianca? 

Mi piace la tela bianca, anche se a volte sperimento diversi tipi di materiale. La tela bianca mi permette di vedere il colore reale quando poi incomincio a dipingere; quindi non lavoro su una base tonale. Ma in futuro, chi lo sa?

Il tuo lavoro nel tempo è naturalmente cambiato. Inizialmente avevi un’attenzione maggiore per l’architettura e il paesaggio. Oggi sembra che ti concentri più sulle figure. Come è avvenuto questo passaggio? E cosa significa autoritratto per te oggi?

In passato ho lavorato molto sul tema della reinterpretazione del genere paesaggistico, soprattutto dell’ambiente urbano. Ero interessato ai cambiamenti nell’Europa centrale e orientale dovuti ai mutamenti sociali e politici degli anni Novanta.

Ho ricercato le forme dell’architettura dell’epoca e anche le sculture urbane. Attraverso un modo naturale di vedere, e il processo stesso di pittura, mi avvicino gradualmente a ciò che è raffigurato. Da una scala anonima nasce un ritratto personale, da un paesaggio una natura morta…

Il mio interesse per uno sguardo più ravvicinato sul corpo umano può anche essere legato al fatto che insegno disegno all’università e automaticamente mi confronto di più con la storia della rappresentazione di questo soggetto.

L’autoritratto è per me un affascinante sottotema su cui ho lavorato ed è molto pratico avere un modello sempre a disposizione.

Mi interessano gli autoritratti nella storia dell’arte come Rembrandt, Courbet, e anche nel mondo attuale, come Joan Semmel. O autori cechi, come Stratil e Bromová.

Nei miei dipinti, io sono in vari ruoli non del tutto specificati. Come attore in una produzione televisiva.

Quello che dici riguardo ai tuoi autoritratti mi fa venire in mente i personaggi pirandelliani. Loro sanno che possono conoscere solo ciò a cui riescono a dare forma. Ma sanno anche che una forma, appena è, cessa di essere vera e diventa subito una maschera, una smorfia, una statua inerte, vuota.

Se chi contempla questi personaggi crede di contemplare in essi la vita, si inganna. Ed ecco che un uomo può essere uno, nessuno e centomila (Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926) e non solo per gli altri, che per conoscerci ci devono fissare in una forma, ma anche per noi stessi che pensavamo di essere “uno solo per tutti”; e ad un tratto ci accorgiamo che siamo centomila. 

Significa che tutti sono importanti e non possono essere trascurati…

Questo accade anche in quegli autoritratti in cui interpreto un determinato ruolo.

Sento che ognuno di noi è un individuo, anche se interpreta i suoi ruoli stereotipati.
Come attore, puoi vestire i panni di qualsiasi personaggio ma ognuno lo interpreterà in modo diverso.
Non esiste una vita poco interessante: ogni storia è diversa perché cambia il contesto.

E inoltre, se come autore lavoro con alcuni significati e ricordi, non ho la garanzia che sarà letta in modo simile dallo spettatore…

Questa è la magia dell’interpretazione.

Dalle tue opere emerge a volte anche una lieve solitudine, ma senza quel rapporto di hopperiana distanza, senza l’attesa perenne. Sembra più una solitudine condivisa, meno silenziosa. Come vedi questo aspetto della solitudine nella tua opera?

Nel caso di Hopper, la solitudine dei personaggi è qualcosa che sottolinea l’atmosfera dello spazio e del momento. Non dobbiamo sapere esattamente di cosa si tratta, ma l’atmosfera è molto contemporanea e americana.

Forse un certo tipo di solitudine aiuta nel dipinto a indirizzare lo spettatore da una trama letteraria a una visiva, illogica, intuitiva.

Io stesso non lo so.

Esattamente. È una solitudine contemplativa nella pittura stessa, necessaria per trovare il giusto tempo meditativo…

C’è una certa solitudine nella pittura stessa, ma non la prendo in modo deprimente o nichilista. La solitudine nella pittura ha anche un fascino.

Si tratta della concentrazione sull’individualità, dell’individuo..…

Se prima si parlava semplicemente di arte contemporanea, oggi si deve parlare anche di Cypto Art. Molti artisti si stanno adattando al nuovo fenomeno, fondendo la tradizione con le tecnologie più innovative. Le NFT sono esplose sui mercati mondiali muovendo cifre esorbitanti. Io credo nella pittura e penso che queste novità abbiano sempre vita breve. Qual è la sua opinione in merito?

Per la natura del materiale e il tipo di attività, come la pittura, sono un tradizionalista.

Non ho molta familiarità con le NFT e tutto il resto… ma ho l’impressione che questa sia fondamentalmente una riproduzione; e questo è un problema per me.

Guardo un sacco di arte sul web e di foto, ma niente di tutto ciò può sostituire l’esperienza autentica di stare con essa.

Anche senza la possibilità di toccare il quadro vero e proprio, ritengo importante percepire la componente aptica del dipinto, quindi la consistenza, il tatto, l’odore,…
Ed è questo che mi manca di queste tecnologie.

Ricordo un aneddoto divertente dei miei studi con Načeradský, quando lui descriveva come negli anni Sessanta e Settanta nella Cecoslovacchia comunista si divorassero le riviste di arte straniera raramente disponibili… solo che allora tutte le riproduzioni erano in bianco e nero.

E un’intera generazione di autori che creavano in stile informale si ispirava ad autori come Antoni Tàpies e così via.

Come furono sorpresi, in seguito, quando ebbero l’opportunità di vedere dal vivo alcune di quelle cose a colori e scoprirono che si trattava di un’arte completamente diversa!

Tuttavia, si trattava di una creazione unica delle possibilità di quel tempo all’interno della società sociale della Cecoslovacchia, ed è proprio per questo che quelle cose hanno la loro qualità.

Questo è il mio punto di vista su questa nuova esperienza. Potrebbe essere utile perché penso che gli artisti, come me, siano in grado di trarre alcune cose importanti da questo nuovo media digitale, però mi piace molto l’opera d’arte personale e fatta a mano. Con tutti gli errori e le coincidenze personali.

Intervista pubblicata sul catalogo:

  • Inscenation
  • Published on the occasion of the exhibition Inscenation 23.02. – 11.5.2023 at the Telegraph Gallery.
  • Editor and exhibition curator: Petr Vaňous
  • Authors of texts: Petr Vaňous, Lorenzo Fusi, Lucia Rossi
  • Publisher: Telegraph Gallery
  • Omlomouc 2023

Versione inedita in italiano per art a part of cult(ure)

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Lucia Rossi, laureata in Arte, Spettacolo e Immagine Multimediale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Parma, è scrittrice, contributing editor per riviste d'arte, curatrice di mostre. Vive e lavora a Berlino. Ha diverse esperienze come curatrice indipendente di eventi culturali e collaborazioni per cataloghi d'arte e pubblicazioni.

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