Daniel Pitín in mostra alla Nicodim Gallery di New York. The Time Machine

immagine per Daniel Pitín in mostra alla Nicodim Gallery di New York. The Time Machine

Estese pennellate, macchie di colore e volumi geometrici, ritagli di giornali sigillati in resina acrilica, la materia che emerge: mondi che richiamano il tempo. È uno spazio pittorico quasi surreale, caotico e ordinato, che domina il dipinto The Time Machine dell’artista ceco Daniel Pitín, in mostra ancora alla Nicodim Gallery – ma per la prima volta a New York – con una personale che prende il titolo da questa opera.

Conosciamo la pittura strettamente scenografica di Pitín, i suoi soggetti congelati, la lavorazione di materiale e linguaggio proiettata a riflettere il divario tra illusione e realtà, in palcoscenici che si rifanno all’iconologia cinematografica .

Nell’attuale mostra c’è ancora tutto questo, ma anche molto di più. Sembra che il tempo ora palpiti con maggiore frequenza e animi i dipinti di molteplici punti di osservazione.

Si indaga sulla coscienza storica, sulla memoria collettiva, su aspetti del passato conosciuti e dati per certi e su altri invece semplicemente dimenticati, quando non addirittura negati.

Striscia, in tutte queste nuove opere di Pitín in mostra alla Nicodim Gallery, un’indagine sull’erosione dei ricordi e sulla riscrittura in generale. Se l’artista decostruisce gli spazi, le immagini prese da fotografie, da scene di film o da architetture, lo fa cercando di scoperchiare gli strati della memoria ad esse legate e il conflitto che le sottende.

Notiamo che l’ambientazione si apre ora all’esterno, inserendosi nel mondo naturale; scelta che permette all’artista di insistere con rinnovato vigore sul rapporto tra luce e volume, delineando e illuminando anche i diversi tempi messi in scena. Ci sono i droni e strani oggetti volanti di un futuro distopico insieme a frammenti di ricordi del passato.

Non si può non collegarsi al romanzo di H.G. Wells The Time Machine (1895), non solo per il titolo ma, soprattutto, per il tipo di analisi accurata che nel caso di Wells, con gli Eloi e i Morlocchi, colpiva la società britannica di epoca vittoriana.

Come in Wells, anche in questi nuovi lavori di Pitín – che attraversano il tempo avanti e indietro – possiamo scorgere, con un riflesso deformato della realtà storica, una diagnosi, che è anche satira, di denuncia sociale.

Nei dipinti Little Red Riding Hood e Pilgrim, l’artista scompone le figure in corpi geometrici di base che, come viene evidenziato nel comunicato stampa, possono ricordare opere canoniche dell’avanguardia come The Triadic Ballet (1922) di Oskar Schlemmer.

Tuttavia per Pitín queste geometrie non incarnano né la speranza in un futuro migliore né l’uomo nuovo. I dipinti esplorano la tensione tra l’anelito a un ideale modernista e la sua impossibilità nel momento attuale, un presente caratterizzato da ansia e violenza.

L’artista si confronta con due tradizioni visive opposte: una elaborazione ben controllata di corpi volumetrici (cilindri, sfere, coni e tamburi), che spesso dipinge secondo modelli architettonici reali nel suo studio, e lo spazio aperto che ricorda la pittura paesaggistica mitteleuropea della fine del XIX secolo.

I soggetti umani sono vittime di questa tensione: privati dei loro volti come se in questo spazio contraddittorio non ci fosse posto per l’individualità umana. Come accade alla figura solitaria di Night Bar, seduta a un tavolo con la guancia destra che poggia sulla mano e che richiama alla mente la stessa posizione del soggetto in Ritratto del dottor Gachet di Van Gogh. Ma qui non possiamo scorgere l’espressione disillusa del nostro tempo – come scrisse Van Gogh in una lettera a Paul Gauguin a proposito dell’aria quasi malinconica del dottore. Semplicemente non possiamo vederne il volto, sostituito da una forma geometrica.

Oggetti estranei e non conosciuti invadono paesaggi che rimandano a situazioni quasi post-apocalittiche e che emanano inquietudine proprio perché inserite in ambienti che ci sono comunque familiari. Per Pitín, il futuro si interseca con il passato e il passato con il futuro. Ecco che i suoi dipinti diventano strane macchine del tempo.

Daniel Pitín ci spiega:

Per i miei dipinti attuali spesso utilizzo come fonte le mie foto dall’album di famiglia, ad esempio le passeggiate nella natura con gli amici.

Tuttavia, queste fotografie vengono trasformate attraverso il processo pittorico in modo tale che il contenuto originale scompaia parzialmente e rimanga solo una traccia di memoria, una sorta di ricordo vago, che permette allo spettatore di entrare in questo gioco e completarlo con l’immagine propria.

Introduco anche oggetti non identificabili in scene familiari, che ci danno la possibilità di interpretare. Da un lato, definiscono la composizione dell’immagine e l’illusione della profondità, ma possono assomigliare a oggetti di fantascienza o a droni cilindrici che si limitano a osservarci, o minacciare l’inaspettato.

Io stesso non fornisco una risposta chiara, il mio obiettivo è, al contrario, aprire possibilità di interpretazione. Ma di certo c’è una tensione sociale nella società che si respira naturalmente nell’atmosfera delle opere.

Queste nuove opere sembrano ricordarci che abbiamo tutti le nostre macchine: quelle che ci riportano indietro, chiamate ricordi, e quelle che ci spingono avanti, chiamate sogni (dal film The Time Machine di Simon Wells).

Forse dovremmo metterci al sicuro dagli imprevisti, impostando dei salvataggi automatici per poter recuperare un ricordo modificato o eliminato per errore. Useremo allora un Time Machine, proprio come il programma di macOS per la gestione dei backup, che ci permette di “viaggiare nel tempo” e di visualizzare vecchie versioni di file e, all’occorrenza, di ripristinarle.

Le atmosfere così familiari e ugualmente fantascientifiche nei quadri di Daniel Pitín sono abitate da figure geometriche che sembrano comportarsi come gli abitanti di Flatlandia del libro di Edwin A. Abbot: non disposti ad accettare una realtà che non possono controllare con i sensi.

Come nel libro di Abbot, la domanda che ci viene posta è semplice: come reagire alla rivelazione che esiste un mondo superiore, una nuova dimensione, che forse non si può comprendere appieno ma alla quale verrà chiesto di credere con la fede?

Pitín stimola e arricchisce l’immaginazione dello spettatore, imposta lo scenario con l’uso sapiente delle sue pennellate, avanza questioni senza mai interferire. Da un linguaggio ora più maturo nascono dipinti di forte impatto visivo, che riescono a catturare l’osservatore nella dimensione riflessiva necessaria per comprendere in profondità il concetto ma anche l’abile tecnica pittorica.

Info mostra Daniel Pitín: The Time Machine

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Lucia Rossi, laureata in Arte, Spettacolo e Immagine Multimediale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Parma, è scrittrice, contributing editor per riviste d'arte, curatrice di mostre. Vive e lavora a Berlino. Ha diverse esperienze come curatrice indipendente di eventi culturali e collaborazioni per cataloghi d'arte e pubblicazioni.

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