Nicola Samorì. Con gli occhi bisogna fare le curve – L’intervista

immagine per Nicola Samorì intervista

L’intervista a Nicola Samorì è tratta dal catalogo: Preparing for Darkness. A New Movement in Contemporary Painting edito da Selected Artists Edition 2020 e pubblicata nella versione inedita italiana in esclusiva per artapartofculture.net

Achille Bonito Oliva, nel testo contenuto nel catalogo della mostra “La Pittura è cosa mortale” a Palazzo Chiericati Vicenza (2014), definisce la tua pittura come una procedura per fondare una difficoltà del vedere. Una sovrapposizione di piani, segni, immagine e colore che produce una particolare esperienza dello sguardo. Lo sguardo, infatti, assume la decisione filosofica di indicarci il rapporto problematico dell’uomo nei confronti della realtà circostante.

È uno sguardo curvo che ci permette di eludere l’invalicabile frontalità delle cose?

“Lo sguardo curvo mi fa venire in mente il gallerista Emilio Mazzoli quando dice che con gli occhi “bisogna fare le curve”; anche Mario Schifano diceva qualcosa di simile.
Io non so cosa significhi, non capisco nemmeno quello che ha scritto Achille Bonito Oliva (sta davvero parlando di me?), ma posso dirti che mi piace guardare la pittura di profilo – e nel retro – quando me lo permettono; lo stesso faccio con le sculture in bronzo: cerco il rovescio della forma e allora sì che gli occhi curvano alla ricerca di qualcosa che non è stato lavorato per essere visto. Forse per questo mi interessa così tanto portare in luce il rovescio della pittura, scorticare la pelle e mettere in evidenza le prime pennellate che si sono appoggiate sulla superficie levigata del rame o del legno. E scoprire i geodi, le carie che interrompono l’integrità della pietra.
Per il resto la mia impostazione è frontale, ostinatamente frontale, una fissità affetta da simmetria che perpetua le buone maniere della tradizione classica, dal tempietto greco alle cappelle laterali di ogni chiesa cristiana.”

E senza dimenticare che la pittura è cosa mortale. Come a dire che ti discosti dall’idea atemporale dell’arte? O meglio, dalla sua illusoria eternità per una visione di declino ineluttabile dell’opera, così come di ogni cosa?

“Ho sempre avuto un rapporto ambiguo con l’arte intesa come viatico di immortalità. Da una parte mi seduce la sua capacità di forzare la nostra biologia, dall’altra mi infastidisce il privilegio che le abbiamo concesso. Forse per questo accelero il processo di degenerazione delle immagini, le trasformo in qualcosa di fragile come una foglia secca o come ali di farfalla, qualcosa di cui ci si deve prendere cura perché non si sbricioli davanti agli occhi.”

Sono varie le descrizioni del tuo lavoro che accentuano l’aspetto legato allo stile barocco. Ma penso che il Barocco sia solo una delle tante inflessioni che possiamo riconoscere nelle tue opere.

“Il Barocco è la lunga stagione durante la quale la pittura ad olio diventa carne e, grazie alla lezione di Caravaggio, lo spazio si semplifica aumentando il vuoto con una emorragia di dettagli. In queste stanze scure la pelle assume una evidenza quasi oscena ed è più facile evidenziare il mio tipico trattamento della materia, la concia delle superfici, dove un San Sebastiano dall’aspetto di ragazzino indossa una pelle che sembra quella di un vecchio.
Utilizzo non a caso l’aggettivo “facile” poiché molte delle scelte che faccio obbediscono alla logica opportunistica dell’agio e della pigrizia. Far sussultare la pelle di una tavola quattrocentesca mi riuscirebbe molto più difficile, se non impossibile, anche perché non ho ancora penetrato i misteri delle mescole a tempera e di quelle trasparenze, al momento, non so che farmene, se non ammirarle al museo.
Tuttavia, come dici tu, il Barocco è solo una delle stanze esplorate dal mio lavoro, perché non disdegno la pittura fiamminga, quella manierista e nemmeno quella purista. Pure il Moderno è entrato con forza nel mio lavoro (Fontana e Burri fra gli altri).”

Ricordo la mostra collettiva Nero su Nero. Da Fontana e Kounellis a Galliani a Villa Bardini, Firenze, nel 2017. In quell’occasione si è creato idealmente un dialogo tra opere di Burri e Fontana e la tua arte.

“Entrambi gli artisti che menzioni erano già stati scelti per progetti che mi includevano: Fontana con un Concetto spaziale del 1962 nella mia stanza personale alla Biennale di Venezia del 2015, e Burri con un Cretto bianco in occasione del progetto Gare de l’Est al Teatro Anatomico di Padova nel 2016.
La mia opera descrive un passo indietro rispetto alla radicalità dei buchi di Fontana e delle combustioni di Burri, opere nelle quali gli autori si sono spinti così vicino alla materia da perdere il senso della figurazione.
A me interessa riportare quelle “ferite” nel costato di Cristo, rendere evidente il fatto che fra il rappresentare una ferita e il ferire la materia esiste un passaggio intermedio, che è quello di ferire l’immagine senza essere degli iconoclasti.”

 Qual è la tua opinione riguardo al lato oscuro del tuo lavoro e che ruolo gioca la malinconia?

“Il buio è la condizione delle cose, mentre la luce è solo un episodio temporaneo e a scadenza.
Non a caso i miracoli e le visioni venivano sempre rappresentati attraverso uno squarcio di luce in qualche punto del quadro. Laddove vedi più luce in un dipinto antico puoi scommettere che un miracolo è nell’aria.”

La pittura è il luogo idoneo dove nascondersi, riscoprire quel lato oscuro che aiuta a uscire dalla banalità e magari meditare sulla vera natura umana. Cosa ne pensi?

“Ho iniziato a dipingere perché mi riusciva facile; poi tutto si è complicato enormemente e adesso non riesco più a tirarmene fuori.
Nel mentre ho scoperto che – per me – non esiste modo più efficace per ricordare i giorni che passano senza dover scorrere l’archivio immagini del telefonino.”

Dicendo questo mi fai venire in mente Italo Calvino ne Le città invisibili, dove si innescano una serie di temi incentrati sul tempo, lo spazio e il ricordo. Un tempo inesistente, spezzato, che insinua il desiderio di comprendere cosa fare, alla fine, per non dimenticare.

“Ho un rapporto ammalato con il tempo, una forma di ossessione: se non lo trasformo in qualcosa di materiale lo considero perso.
La pittura e la scultura mi aiutano a rallentarlo e a fissarlo.
Ecco, l’arte per me è “fermatempo”, un calendario che mi permette di associare un anno, un mese, un giorno all’insorgere di una immagine e al lento lavoro che la stessa ha comportato prima di essere licenziata dallo studio.”

Parlando di calendario penso agli orologi molli di Salvador Dalì e al concetto di relatività nella flessibilità del tempo.

“In arte ci si ostina a parlare del “proprio” tempo, come se il nostro fosse l’unico tempo degno di attenzione, mentre io vorrei dipingere come se fossi morto da un secolo, libero da ogni incrostazione che mi incolla al presente. Per questo credo all’arte come a un foro nel tempo, a qualcosa che si svincola dalla cronologia e della cronaca, in balia di una mollezza delle lancette.
E – sempre a proposito di tempo – vorrei realizzare più spesso opere che mi obblighino a “sostenere un sentimento per mesi” come diceva Philip Guston a proposito degli antichi maestri.  Oggi è difficile meditare un’opera a lungo perché il mercato chiede feedback di continuo e ritirarsi in una zona d’ombra per mesi o per anni richiede moltissimo coraggio.”

Tratti e manipoli le tue opere spingendole al loro limite estremo. C’è un sovraccarico di ansia. Come ci riesci?

“Sono una persona pavida, non ho coraggio, non riesco nemmeno ad alzare la voce. Cose che mi creano disagio e che, in qualche modo, andavano contrastate con l’invenzione di un alter ego: il massacratore di immagini che obbliga le opere a correre sul filo di rasoio. Quel che creo è sempre in pericolo, deve vedersela con gli incubi peggiori per spingere la materia a reazioni esaltanti.”

La tua veste di massacratore di immagini evoca, sotto certi aspetti, la rabbia nell’opera di Artemisia Gentileschi. Luigi Lanzi affermò che la sua era una pittura di forte impasto, di un tuono e di una evidenza che spira terrore.

“La mia opera mette in scena l’oscillazione perpetua fra la cura e la collera. Senza accumulare tensione attraverso stesure lente e snervanti non troverei mai l’energia necessaria a sprigionare la rabbia custodita in un gesto risolutore.”

Sembra che il tuo sguardo al passato sia senza nostalgia. La tua “posizione iconoclastica” è solo un appassionato atto di traduzione. Cosa significa esattamente per te contemporaneo? E qual’è il rischio di insistere solo sul presente?

“Mi fa piacere leggere come la pensi in merito alla presunta iconoclastia presente nelle mie opere.
Lo ripeterò fino allo sfinimento: io sono un iconofilo, credo nel potere delle immagini, ci credo al punto tale che ne sento la forza anche quando resta solo una particella di un corpo, di una farfalla, di un frutto.
Il contemporaneo è una ruga in più nel corpo millenario dell’arte, un piccolo segno di invecchiamento, ma anche di differenza, che aggiunge corrompendo.”

Nicola, sei stato uno degli artisti selezionati per il Padiglione Italia alla 56° Biennale di Venezia.
Un riferimento chiave del curatore di quella Biennale, Okwui Enwezor, è stata la lettura di Walter Benjamin dell’Angelus Novus (1920) di Paul Klee. Benjamin descrive un accumulo di detriti ai piedi dell’Angelo, che è proiettato in avanti con le spalle rivolte al futuro, guardando il passato. Trovo una relazione tra il tuo lavoro e la teoria dell’angelo della storia di Benjamin, una visione malinconica del processo storico.
Qual’è la tua opinione su questo? E cosa significa per te futuro?

“Del futuro non si sa nulla, non si può dire nulla di veritiero, non credo abbia nemmeno senso progettarlo, perciò la celebre immagine di Benjamin continua ad essere la più calzante della condizione dell’artista e, a ben vedere, dell’umanità tutta.
Pensiamo sempre ad andare avanti, mentre a volte bisognerebbe mettere la marcia indietro. Penso spesso alla frase sibillina del navigatore che dice “tornate indietro quando potete”; ecco, a volte dovrebbero farne tesoro anche gli artisti.”

Trovo questa tua affermazione estremamente interessante: Ogni atto è una riscrittura condotta con saggezza a posteriori, come se Holbein avesse stretto un patto con Appel all’ombra di Ribera. José de Ribera ha un’influenza significativa nella tua arte. Cosa esattamente del suo lavoro entra in risonanza con il tuo?

“In José de Ribera le aureole scompaiono, gli squarci di luce si richiudono e la carne diventa il piano d’appoggio degli eventi prodigiosi. C’è così tanta luce sulla fronte dei suoi santi che anche un cieco potrebbe leggerla con le dita.”

Una luce che inonda anche il volto della tua Lucia, dagli occhi non dipinti ma frutto di fessure naturali.

“Le carni di Lucia sono sbiancate, in modo da rendere visibile la sua mutilazione che coincide con la parte invisibile delle pietre – il geode – che viene alla luce solo attraverso un trauma della materia. La parte recondita, secretata alla nostra vista nel cuore dei minerali, diventa così la fessura attraverso la quale la Santa ci scruta, ed è solo avvicinando i nostri occhi ai suoi che le pagliuzze minerali, quasi ciglia di vetro, diventano leggibili.”

Il tuo lavoro comprende pittura e scultura. Come si incontrano questi due aspetti nella tua arte? E, da questo punto di vista, com’è stata l’esperienza alla Fondazione Made in Cloister di Napoli?

“Pittura e scultura convivono a lungo in studio e così finiscono per imitarsi: la pittura si stacca dal supporto e si sporge in avanti, mentre la scultura si nutre delle policromie terrose che incrostano le cavità naturali della roccia.
A Napoli la scultura polarizzava lo spazio: un colosso – Drummer – ispirato a un piccolo avorio attribuito a Joachim Henne, occupava il centro di Made in Cloister. Acefalo, Drummer è metafora di un vulcano che ha eruttato teste e lapilli, ricaduti in una perfetta geometria quadrata ai suoi piedi.
Un’immagine arsa e furente di cinque metri di altezza, suggerita, fra le altre cose, da alcuni racconti dell’eruzione del 1631, in bilico fra il terrore e lo stupore panico: “era uno spettacolo meraviglioso quello della lava scorrente nei frutteti; ogni albero raggiunto dalla lava si accendeva e bruciava”, annota un testimone.
Ma la pittura non è stata in silenzio, anche perché si comporta da tempo come il sangue di San Gennaro: sembra secca e morta, ma torna a liquefarsi in occasioni speciali, quando intorno alle sue reliquie vengono compiuti gesti che si tramandano da secoli.”

Nicola Samorì, Ultima Scena,2020, oil on canvas, 190 x 350 cm, Photo Rolando Paolo Guerzoni

In The Logic of Sensation Gilles Deleuze afferma: Come in Kafka, in Bacon la colonna vertebrale non è altro che la spada che un carnefice ha fatto scivolare sotto la pelle del corpo di un innocente che dorme. Riguardo al tuo lavoro, sei d’accordo con questa affermazione?

“È un’immagine molto seducente, che non arriva da un pittore. Mi sono innamorato di Bacon attraverso Deleuze, poi mi sono serviti molti anni per liberarmi di questo filtro. Quando lavoro sono molto pratico, come un macellaio che sa bene dove mettere il coltello, e lascio la poesia ad altri.”

Ho l’impressione che molti artisti lavorino meticolosamente in una sola direzione, senza varcare confini. Voglio dire, troppo spesso abbiamo opere che riflettono esattamente ciò che ci si aspetta dalla pittura figuartiva. In alcuni casi c’è una buona tecnica, ma non riesco a trovare l’intenzione. Qual’è la tua opinione in merito? Sei stato membro della giura di Figurativas 2017 – Fundación de las Artes y los Artistas, Barcelona.

“Allora dissi che mi era capitato di vedere soprattutto i pennelli, ma poca pittura. Tuttavia, riconosco a un concorso come Figuativas la volontà di reagire a quella che io chiamo “pittura a risparmio energico”: un compendio di singhiozzi, macchioline, tremule linee, tela a vista, un po’ come un De Pisis con poca ispirazione. Roba che funziona a tutte le latitudini, che entusiasma gli intellettuali della pittura e che satura le fiere più ambite.”

Una volta hai detto che sei interessato a una condizione di trasversalità. Possiamo dire che non ti senti parte della pittura figurativa? O che sono stati creati dei falsi schemi?

“Ogni volta che vengo coinvolto in un contesto di arte figurativa (premio, conferenza, mostra collettiva) non mi sento nel posto giusto. Ogni volta che vengo coinvolto in un contesto di arte contemporanea con quelli della mia generazione, oppure poco più giovani o poco più anziani, non mi sento nel posto giusto. Ora, quale sia il mio posto proprio non lo so.
Mi appassiono ad alcune persone e a quello che fanno, mai ai branchi. Detesto la squadra e il gruppo, mi sono sempre mosso in solitaria, con fugaci avvicinamenti per via di temporanee affinità. Dunque se mi domandi se mi sento parte della pittura figurativa ti rispondo di no. Ma se mi domandi se ho mai avuto intenzione di fare un lavoro aniconico ti rispondo – ancora una volta – di no.”

Credi che ci sia ancora una sorta di repressione nei confronti del linguaggio pittorico?

“Certo, perché la pittura è una faccenda sporca, erotica, ruffiana, inestirpabile.
Non faccio video e non faccio fotografia, ma se me ne occupassi vivrei nel terrore che un giorno quei mezzi che mi consentono di fabbricare immagini potrebbero sparire o rompersi. Una cosa che ha bisogno di una presa elettrica è più fragile di una che si attacca al polso.”

So che apprezzi Georges Didi-Huberman. Lui suggerisce agli storici dell’arte di iniziare a pensare alla rappresentazione come a un processo mobile che spesso implica contraddizioni. Cosa ne pensi?

“Impariamo a leggere da sinistra a destra, a sfogliare la Storia dai Sumeri a Trump, come se tutta la catena degli eventi fosse scolpita in ordine progressivo nella coscienza collettiva, mentre la Storia è mutevole, ridefinita di continuo da chi la tramanda, non da chi la vive; e così l’arte.
Chiamiamo progresso quella freccia direzionata che ci spinge da A verso Z senza tentennamenti, invece l’arte sembra dire esattamente il contrario e, proprio per questo, è preziosa per accedere a una complessità e a una fragilità delle strutture che non può essere spiegata in termini evolutivi.
All’arte, che la Terra sia piatta o sferica poco importa.”


Nicola SamorìPreparing for Darkness A New Movement in Contemporary Painting. Selected Artists Edition 2020

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Lucia Rossi, laureata in Arte, Spettacolo e Immagine Multimediale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Parma, è scrittrice, contributing editor per riviste d'arte, curatrice di mostre. Vive e lavora a Berlino. Ha diverse esperienze come curatrice indipendente di eventi culturali e collaborazioni per cataloghi d'arte e pubblicazioni.

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