Broken. Annette Lemieux e la prima personale alla Galerie Mazzoli di Berlino

immagine per Annette Lemieux
Annette Lemieux - Culture 2019

Sarcastica, pungente, poliedrica, diretta nella semplicità visiva eppure penetrante nel linguaggio.
Serigrafie, pittura, installazioni, fotografia; le sue opere fuggono a un primo sguardo dallo stile che caratterizza solitamente l’artista, per aprire a mostre in cui i lavori sembrano nascere da mani e menti diverse.
In realtà l’utilizzo di differenti mezzi espressivi per creare opere sempre accese da una sottile ironia e fortemente incentrate su temi attuali politici, ma più in generale umani, mostrano chiaramente la sua firma: Annette Lemieux.

La Agnes Martin with an axe to grind, come fu definita Lemieux dal critico Robert Pincus-Witten ad indicare l’aspetto minimalista – nel nome della pittrice statunitense minimalista Agnes Martin – percorso da secondi fini, combina in presentazioni chiare e pulite l’imprevedibilità di una realtà complessa, mescolando politica, storia, cinema, cultura popolare, attualità, arte.

Di questi aspetti ho parlato con lei in occasione di Broken, la sua prima mostra personale a Berlino presso la Galerie Mazzoli con i lavori più recenti.

Il suo essere diretta nella rappresentazione artistica non deve far pensare ad una semplicità di esecuzione.

Il processo ideativo assume un ruolo primario nella progettazione dell’opera finale, scrupolosamente elaborato per ravvivare l’attenzione su questioni di urgenza principalmente sociale.

Ripercorriamo insieme il suo percorso artistico mentre sfogliamo il catalogo – con testi di Frank Boehm – realizzato in occasione della mostra, esaminando le tematiche che tornano ciclicamente nei suoi lavori, come la guerra, con evidenti rimandi a situazioni strettamente americane – e forse legate anche alla figura del padre che faceva parte dei Marines – e i paradossi della società contemporanea.

Nata nel 1957 a Norfolk, in Virginia, Annette Lemieux comincia la sua carriera artistica nei primi anni Ottanta vicina agli artisti della Pictures Generation, quindi David Salle, Cindy Sherman, Barbara Kruger, Sherrie Levine, Robert Longo, Richard Prince, Jack Goldstein, insieme ai più giovani, come lei, Ashley Bickerton, Peter Halley, Gretchen Bender, Jeff Roots e altri, influenzati da una generazione di artisti concettuali con John Baldessari al timone. 

Artisti, quelli della  Pictures Generation, che erano cresciuti con la Guerra Fredda e la minaccia quotidiana del nucleare, con i film di Hollywood, pubblicità delle riviste come Look e Life. Un mondo dei media in bianco e nero che poi diventava colorato. Famiglie da propaganda tutta bianca in case da sogno imperlate di patriottismo. E quando l’ottimismo della stabilità cominciò a vacillare, gli artisti della Pictures Generation si ritrovarono maggiorenni nella disillusione, improvvisamente coscienti che le narrazioni che li avevano cresciuti altro non erano che falsità oppressive.

Non a caso forse la fotografia si rivelò per molti di loro il mezzo più congeniale: per rendere chiara la natura di ciò che è già noto.

Proprio le immagini risultano essere fondamentali per Annette Lemieux, un materiale fotografico preso dai giornali e collezionato nel corso degli anni a formare un prezioso archivio che lei chiama il suo landscape.

In un’opera del 1986 It’s a wonderful life (dal titolo del film di Frank Capra del 1946), Lemieux unisce varie forme popolari con lo scopo di mostrare l’insicurezza personale e l’assurdità di certe dinamiche politiche ed economiche, creando così un’arte che diventa, come sostenne Peggy Phelan, il suo modo di rispondere, sia pubblicamente che intimamente, alla situazione in corso delle nostre vite.

Una volontà, quindi, di ridurre il più possibile la discrepanza tra arte e vita seguendo il flusso di Robert Rauschenberg e John Cage.

È il caso di Left Right Left Right, installazione realizzata nel 1995 composta da diverse fotografie in bianco e nero raffiguranti dei pugni alzati e posizionate su pali di legno di diverse dimensioni. L’opera, destinata al Whitney Museum di New York, fu concepita in risposta alla sfida tra Bob Dole e Bill Clinton per le elezioni presidenziali del 1996. Alcuni dei pugni alzati sono di personaggi noti – da Martin Luther King a Richard Nixon e Jane Fonda – mischiati a quelli di persone comuni, mascherando le varie identità in nome di una potente rivolta anonima. Una accesa dimostrazione verso un qualcosa che non ci è dato sapere nello specifico, insinuando una assurdità assoluta anche nella posizione stessa delle inquadrature che formano pugni sollevati in direzioni diverse.

Questa è una delle opere che più spiega come approcciarsi ai lavori di Lemieux.

Ciò che a primo impatto sembra un fronte unificato di  braccia alzate, tutte unite nella stessa protesta, svela sottili ma radicate differenze all’analisi più scrupolosa, mostrandoci così il vero senso che l’installazione vuole trasmettere, ovvero che le dimostrazioni, e le ragioni politiche e ideologiche che le causano, sono in realtà complesse, lontane da un’unica vera sana visione, percorse da sentieri contradditori. 

Il giorno dopo l’elezione di Donald Trump, Annette Lemieux capisce che l’installazione così presentata non è più in grado di manifestare il vero animo attuale, un panorama ancora più sinistro e buio che in precedenza.
Ricordando quel momento mi parla dei giorni immediatamente successivi alla vittoria di Trump, mentre si trovava all’Università di Harvard, dove insegna tutt’oggi: Il giorno dopo le elezioni non potevo credere che avesse vinto. La maggior parte dei miei studenti entrava nelle aule come se seguisse una funzione funebre. 

È così che Lemieux ricorda la sua installazione del 1995 e capisce che non ha più senso, svuotata della capacità di stare al passo con la situazione attuale.

Chiama il Whitney Museum e chiede che la sua opera venga capovolta; nell’esposizione Human Interest: Portraits from the Whitney’s Collection del 2016 troviamo i pugni chiusi a testa in giù.

E insieme all’incredibilità politica, alle dinamiche conflittuali di entrambi gli schieramenti, alla subdula cattiveria che cresce cambiando maschera ogni volta, arriva l’impotenza.

Lemieux sfida il suo pubblico e lo tiene sempre vigile sul presente, resistendo alla tentazione di fedeltà. Il suo essere interdisciplinare nella forma la porta a una continua esplorazione delle nostre strutture culturali. Ricontestualizzando oggetti e immagini che fanno parte della storia, della cultura popolare, Lemieux dona loro significati nuovi e a volte inattesi ma immediatamente riconoscibili.

Si crea un’unione forte tra lo spettatore e le sue opere, unione che permette di intensificare quei legami tra l’interiorità nostra e l’esterno, il tutto ricoperto armoniosamente di umorismo e logica.

Così come nelle ultime opere presenti oggi alla Galerie Mazzoli, dove ritroviamo molti dei temi a lei cari ad indicare la persistenza di solidi riferimenti accompagnati sempre da elementi tipicamente americani.

Nella mostra broken la quantità di materiale cinematografico presente ci ricorda la potente ispirazione che hanno avuto i film per Lemieux, quei film in bianco e nero che hanno formato la sua educazione culturale mentre viveva nel Connecticut negli anni ’60 e ’70. Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin, M di Fritz Lang, solo per citarne alcuni, sono film che hanno affrontato temi come il razzismo, la repressione, il classismo, questioni che continuano a vivere nel clima politico contemporaneo.

Lemieux estrae determinati momenti dalle narrazioni di film classici e li rende immediatamente riconoscibili, o comunque estremamente familiari.

In The Last Picnic è raffigurata una scena di What Ever Happened to baby Jane? film di Robert Aldrich del 1962 in cui vediamo Bette Davis e Joan Crawford vestite con i motivi della bandiera americana.

E proprio il motivo delle stelle lo troviamo anche in una immagine della serie broken, mentre le strisce dominano Untitled (Flag) dove sono presenti altri due elementi della cultura americana, una Harley Davidson in un paesaggio devastato da un incendio. 

Fire Cone è l’unico lavoro tridimensionale presente ed è anche la sola opera della mostra del 2017.

Si riferisce alla trasposizione cinematografica di Truffaut del libro Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, attirando quindi la nostra attenzione su questioni di censura e sorveglianza, così come nelle serigrafie The Watchers 2 e in Excerpts nelle quali riconosciamo diverse delle copertine di 1984 di George Orwell. 

Fire Cone, un cono a strisce bianche e rosse, risveglia immediatamente l’immagine di un faro. Ma invece di essere salvezza e sicurezza per le navi in mare capiamo che il vero compito di questo faro infuocato è quello di guidare l’intelletto nell’ombra, sotto la copertura della protezione.

La sua reverenza per la storia e la cultura porta alla creazione di opere meticolose di riferimenti, a un primo sguardo immediate e semplici nella loro iconografia, ma che richiedono un’osservazione prolungata per cogliere ogni dettaglio, piccole e grandi citazioni e collegamenti in grado di creare quel legame intimo e personale con lo spettatore per condurlo ad analizzare il presente attraverso segni di una cultura che ci appartiene.

Una personalità multipla che l’artista mette nei suoi lavori e che ci permette di avvertire nuovi significati in icone riconoscibili perchè parte del mondo.

Un grido, uno schiaffo, capace di farci divertire e allo stesso tempo preoccupare, luce e ombra per non abbassare la guardia e permettere a un processo culturale di darci solo l’impressione di essere informati senza esserlo davvero. Perchè un conto è vedere le cose così come ci vengono presentate, un altro è avere i mezzi per pensarle a modo nostro.

+ ARTICOLI

Lucia Rossi, laureata in Arte, Spettacolo e Immagine Multimediale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Parma, è scrittrice, contributing editor per riviste d'arte, curatrice di mostre. Vive e lavora a Berlino. Ha diverse esperienze come curatrice indipendente di eventi culturali e collaborazioni per cataloghi d'arte e pubblicazioni.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.