Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza di Goffredo Fofi. Per mantenere viva una presenza aperta alla società

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Goffredo Fofi, autore del libro Da pochi a pochi. Appunti di sopravvivenza edizione Elèuthera 2006, è un giornalista, saggista, critico letterario e cinematografico, consulente editoriale, direttore di riviste.

È stato ed è tuttora una voce fuori dal coro nella cultura e nella politica degli ultimi 50 anni,  cercando di costruire un pensiero alternativo al consumismo dilagante e alla omologazione culturale.

Fu uno dei fondatori dei Quaderni piacentini, rivista trimestrale di stampo gramsciano e marxista che ebbe un ruolo fondamentale nella formazione della sinistra extraparlamentare.

Nel 1967 fondò a Torino Ombre rosse, rivista di cinema vicina al movimento studentesco e operaio. Si è occupato moltissimo nei suoi studi della questione meridionale anche attraverso incontri diretti con i più esperti meridionalisti del dopoguerra.

Notizia non secondaria secondo me, ha avuto un ruolo fondamentale nella rivalutazione di Totò, poco valorizzato in vita e troppo presto dimenticato dalla critica cinematografica, attraverso la pubblicazione di un saggio scritto in collaborazione con la vedova Franca Faldini (L’uomo e la maschera).

Attualmente dirige la rivista Gli asini ed è il direttore editoriale delle Edizioni dell’asino.

In questo magnifico libro Da pochi a pochi, Goffredo Fofi alterna pensieri, considerazioni ed esperienze molto personali con analisi sociali e politiche di grande spessore.

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La prefazione è piuttosto illuminante sugli intenti dell’autore; è un’aspra autocritica su tutto quello che lui stesso non è riuscito ad essere. Avverte il lettore che non troverà grandi teorie né importanti analisi, ma soprattutto delle esternazioni, delle domande e soprattutto molte “ indignazioni”.

Fofi ha girato molto l’Italia cercando sempre di essere “dentro” i movimenti, dentro il tempo e le cose della politica. Elenca un’infinità di autori nei confronti dei quali si sente debitore, ed in particolare Alex Langer e Aldo Capitini.

Il racconto di questi ultimi decenni è molto amaro, disilluso. Parla di se stesso come qualcuno che è stato «orgoglioso del mio tempo, della mia nazionalità, del mio istinto di socialità», per soffrire adesso di vivere in questa epoca nella quale si riconosce poco.

L’analisi è spietata, lucida. Già nella prefazione si chiede perché «nessuno è mai riuscito a convincerci che il bene del singolo è effetto del bene collettivo», perché la mancanza di un “senso dello stato” sia cosÌ radicata e difficile da scalfire.

Contesta delle espressioni di questa mancanza cronica che tutti noi conosciamo bene: “qua nessuno è fesso”, “ho famiglia”. Fofi non si limita ad elencare questi indicatori verbali della nostra cultura e della nostra storia; li esamina uno ad uno, criticamente, cercando di capire da dove vengano, che radici e che storia abbiano. Ma soprattutto contesta una retorica del nostro mondo occidentale benestante che ci vuole “tutti felici e vincenti”.

Alla base del suo pensiero c’è un duro attacco alla classe intellettuale e alla sinistra, indubbiamente responsabili proprio perché erano forse gli unici a doversi accorgere di questo processo trasformativo.

«Gli intellettuali credevano di essere il sale della terra e i motori delle trasformazioni, ma hanno perso la loro battaglia perché l’ha persa l’intelligenza come valore primario».

L’umanità contemporanea ama i ricchi, li idolatra, li vive come un modello da imitare, e questo spazza via ogni conflitto di classe. I confini non sono più chiari. Ipotizza che la possibilità di consumo degli anni del boom economico abbia fatto diventare la ricchezza un valore assoluto, spazzando i valori intrinseci dell’individuo pensante.

Seguono digressioni oltre che sul denaro, sull’automobile, sui tanti beni di consumo, sul concetto di patria. Ricorda che ai funerali di Pasolini, nominato moltissimo in questo libro, Moravia disse: «Pier Paolo era un patriota», perché amava il suo paese che invece lo detestava.

Nel pieno dell’era craxiana Fofi scrisse un editoriale dal titolo fortemente provocatorio: “le mezzeseghe all’arrembaggio”. Si andava affermando una classe politica incompetente e rampante, attratta dal centro più che da ogni altro schieramento: il centro come neutralità, compromesso, come scelta di mediocrità.

La diminuzione crescente di differenze tra destra e sinistra aumenta il qualunquismo di noi tutti che  ci porta a pensare ad una indifferenziata classe, i “loro”.

Questa brutale virata verso la mediocrità del centro è stato il vero “golpe all’italiana”, dove la quasi totalità del sistema di informazione è stata posta prevalentemente nelle mani di un’unica persona, ripetendo all’infinito un solo ossessivo modello di vita. In questo modello di vita tutti possiamo pensare di diventare famosi, protagonisti.

Quando Fofi scriveva era il 2006, il mondo del social esisteva già ma non in modo dirompente e capillare come ora. Mi piace pensare che forse oggi avrebbe aggiunto che tutti possiamo e desideriamo essere “visibili”.

In questo modello di vita, che ironicamente ma simbolicamente identifica con il karaoke, che rende i partecipanti protagonisti per qualche minuto, non c’è nessun bisogno di dittature, si aderisce spontaneamente all’omologazione; è sufficiente «far credere a ciascuno di essere diverso, sta nel solleticare il suo narcisismo e nel fargli piacere, con queste consolazioni, l’assoluto conformismo che gli viene richiesto». In questo modello di vita si è eternamente giovani fino a età indefinibili, «salvo poi precipitare non nella vecchiaia ma nella decrepitezza».

Parla molto del periodo del governo Berlusconi come dell’ulteriore volgarizzazione della politica. Ma Berlusconi non è stato l’inizio: «la vera tragedia è stata quella della scomparsa delle classi, prima sul piano culturale che su quello sociale, sul dominio della “piccola borghesia alfabetizzata del benessere”.

È stato un grosso problema constatare che i poveri non confliggevano più con i ricchi, ma anzi li veneravano». È nata così una nuova plebe asservita dalla propria ammirazione nei confronti del potere; è nata senza incontrare nessuna resistenza né a destra né a sinistra, né a sud né a nord, né in centro né in periferia.

Da pochi a pochi è un atto di accusa, ma l’autore cerca sempre di capire da dove vengano le cose per trovargli una spiegazione e anche se difficilissima, una soluzione, partendo da un punto di vista che derivi da una mentalità nuova, diversa, dalla possibilità di riconsiderare tutto. Si chiede quando cambierà davvero qualcosa,  si chiede perché i movimenti non durano, confusi e ammucchiati in una recita che abbraccia destra e sinistra.

Ogni tanto si intravede un barlume di sincera opposizione, alla guerra ad esempio, ma è fragile perché “lo spettacolo” è altrove, e se dovesse essere qui ci coglierebbe terribilmente impreparati.

È doveroso guardare indietro per capire; bisogna saperne di più sulle mutazioni per capire il presente: la storia non si ferma, e la conoscenza del passato è l’unica speranza per il futuro e almeno per non commettere sempre gli stessi errori.

Fofi parla del 68, del boom economico del dopoguerra, dell’arte, della comunicazione, della televisione; difficile trovare un argomento che non abbia toccato con la grande capacità di connetterlo a tutto il resto.

Non tralascia nulla di questa epoca moderna:anche se è terribilmente critico su quasi tutto, afferma che anche alcune esperienze che oggi definiamo fallite avevano ragione di essere e hanno portato delle trasformazioni che erano indispensabili.

Torna spesso a Pasolini che aveva già annunciato moltissime delle cose che denunciamo oggi. Anche le cose che scrive Fofi solo nel 2006 sono già andate come lui prevedeva.

Perché in effetti, quello che è sempre mancato e manca alla politica è la lungimiranza, il non capire che le cose vengono da lontano, da un “prima” e sono le basi per “un dopo” abbastanza scontato e prevedibile.

Il cugino di Pasolini ha raccolto dei ricordi di Pier Paolo dal titolo perfetto: “come non ci si difende dai ricordi”: lì c’è un Pasolini giovane, più solare, ma già molto disilluso. In una sorta di sua abiura scrisse : «io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile».

Questa difficoltà di vivere, Fofi ipotizza che abbia portato Pasolini «su un terreno di estrema difficoltà personale» che conduce fino alla sua fine.

Con una sottile ironia dice che da “poveri ma belli” siamo diventati “ricchi e brutti”. L’ossessione dell’apparenza e lo sforzo continuo di essere diversi ha costituito un’omologazione alternativa, un non-conformismo che ci livella esattamente come il conformismo stesso. La nostra epoca ostenta il cattivo gusto ed esibisce l’horror con spavalderia.

Ad una prima lettura si può pensare che questa analisi scoraggi da ogni tentativo, non lasci nessuno spiraglio, che lasci un senso di ineluttabilità come se fossimo catturati in una spirale senza via di uscita. Ma l’intento è diverso, e di inviti ce ne sono molti.

Riporto un piccolo elenco critico per il lettore di qualsiasi libro che viene invitato ad essere pensatore, recensore, oltre che lettore.

L’invito è cercare di riconoscere i talenti e trascurare i “prodotti”, perché l’arte e la comunicazione non sono sempre la stessa cosa; di non avere paura di identificarsi con una minoranza, di inventare spazi liberi, anche se poco frequentati; di verificare, studiare e leggere i classici che non devono togliere nulla a ciò che è venuto dopo, ma possono costituire un  riferimento, un termine di paragone in un’epoca in cui forse non era l’editoria o la divulgazione ad imporci cosa leggere.

«Non è semplice, ma è opportuno provarci» dice, e con questo consiglio Fofi riscatta ogni pessimismo con l’invito a modificare le cose, a darsi da fare, fino ad arrivare all’ultimo capitolo non a caso intitolato “ovvero: che fare?”.

Si, perché Fofi, pur sparando a zero su quasi tutto, non si chiama e non ci chiama fuori, anzi ci tira dentro. Richiama ad un senso di responsabilità le minoranze, invitandole ad esprimersi con una radicalità assoluta. C’è ancora spazio per fare delle scelte, per ricollocarsi da un “quasi al centro” ad un “quasi ai margini”.

«Si tratta di contare sulle proprie forze e sull’alleanza dei simili, di valorizzare la pratica della comunità sopra ogni sicurezza economica (…). Si tratta di sapersi dislocare a seconda delle difficoltà e delle sconfitte. E anche delle vittorie, che possono farsi a volte più pesanti delle sconfitte».

Ci sono due compiti dai quali non si può prescindere: riabilitare il presente mantenendo  una presenza continua nella società, con tutti i mezzi di cui siamo capaci, agendo attraverso le nostre differenze e poi “non-accettando” come l’autore ripete più volte.

«Rifiutando ogni premura o ossessione del successo (…), amando la vita e facendola amare anche a chi ne è distratto dal dolore, dalla solitudine, o dall’esclusione dei beni primari (…), non disprezzando nessuno, ma esigenti con se stessi e quindi autorizzati a esserlo anche con gli altri, non-accettando. Aperti a tutti e in funzione di tutti. Ma trasmettendo le nostre acquisizioni, oggi almeno, nella confusione dell’epoca, da pochi a pochi”.

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Non sono una giornalista né, tanto meno, una scrittrice. Sono una fisioterapista in pensione con la grande passione della lettura che mi guida da quando ero bambina.
L’idea di questa rubrica nasce dal mio desiderio di condividere. Se un libro mi piace o mi colpisce particolarmente, cerco di raccontarlo affinché anche gli altri possano provare le mie stesse emozioni. Non amo, invece, parlare dei libri che non mi sono piaciuti. Preferisco pensare che non sono nelle mie corde, o che li ho letti nel momento sbagliato.

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