La parola al teatro #88. Gaber, l’intellettuale, in maratona al teatro Menotti

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“Poeta? Precauzionalmente, preferisco definirmi un cantautore”, diceva di sé Fabrizio De Andrè. Per lui, come per – pochi, ma straordinari componenti della gucciniana eletta schiera, cantautore è un termine che al presente non basta più da tempo. Si è scomodato, se non con ragione con buone motivazioni, quello di maitre a penser. Soprattutto per coloro che non possono più contestarlo in prima persona. Con ogni probabilità non lo amerebbero.
Giorgio Gaber, a esplicita domanda, disse “se mi dicono che sono un rompicoglioni mi fa piacere”. In un’altra occasione, più urbanamente, si descrisse così: “Sono un filosofo ignorante, studente a vita”.

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Indiscutibilmente, hanno lasciato una traccia culturale, che ne travalica l’esistenza stessa. Non di rado, però, se il tempo ha conservato la vividezza delle loro parole e del messaggio, ne ha, tavolta, addomesticato la forza, smussandone le provocatorietà con cui, soprattutto il cantautore milanese, teneva a sfidare il suo pubblico.

La Maratona Gaber, che il teatro Menotti gli ha dedicato, serve anche a questo. In un luogo che del recupero del lavoro gaberiano ha fatto, negli ultimi anni, uno dei capisaldi della propria stagione, vanno in scena uno dopo l’altro tre pietre miliari del teatro canzone di Giorgio Gaber.

Con una scelta eloquente – per quanto forse più sfidante per gli interpreti, vanno in scena in ordine cronologico inverso Polli di Allevamento, rappresentato nella stagione teatrale 1978-79, Libertà Obbligatoria, datato 1976 e Far Finta di essere sani, la cui versione originale è del 1973.

Se il primo, per la prima volta sul palcoscenico del teatro di recente dedicato a Filippo Perego, affidato a Giulio Casale, fa un lavoro accuratamente filologico, gli altri due sono affidati a una felice e ormai rodata collaborazione tra i creativi e talentuosi musicisti toscani della Musica da Ripostiglio e la voce incantevole di Andrea Mirò.

Entrambi, ma soprattutto il secondo, muovono dal lavoro originale per fare, nel primo caso una rilettura più squisitamente teatrale, nel secondo una sorta di bignami, o sintesi, della produzione di Gaber, privo però di semplificazioni.

È Giulio Casale, che con i gesti, la postura e persino la voce di Gaber condivide da sempre una somiglianza che, a occhi chiusi, farebbe pensare alla reviviscenza, ad assumersi l’onere di disinnescare l’immaginario che spesso si affida a questo genere di maestri di pensiero, vent’anni dopo di loro.

Quello che porta in una scena nuda, con il consueto fare dinoccolato e la magnetica padronanza di palco che gli è consueta, è un signor G urticante, scomodo, senza mezzi termini nello scontrarsi, apertamente, con chi pretendeva di somigliargli.

Il manifesto, attraverso cui rileggere l’intero lavoro, è in chiusura: in Quando è moda è moda il cantautore milanese, con le parole dell’essenziale sodale Sandro Luporini, si rivendica “diverso e quasi certamente solo”: sbatte una porta in faccia senza appello a tutto il movimento ormai diventato – sostiene – parodia sterile di se stesso, e dunque sostanzialmente innocua come lui non vuole essere.

È un taglio spietato e senza appello, che segna un punto di non ritorno. Non è però un gesto di ripicca o superiorità, quanto piuttosto l’esito spietato dalla lucidità con cui l’intellettuale sa rileggere l’illusione lasciare il posto alla paura, un passato ammuffito fatto di padri autoritari che però “davano l’idea di persone”,  mentre lascia il posto a una generazione di padri talmente impegnati a negare il passato da perdere di vista ogni senso. Un fallimento che da cui però non si tira indietro. Come farà poi alle soglie del duemila, lo rileva nella sua stessa generazione. Cosa rimane allora? è tutto perduto, l’idea e l’uomo stesso si guarda allo specchio e aspetta solo un suicidio un po’ grottesco e patetico?

Forse l’unica alternativa è marcare una distanza da chi pretende di saperci: “Non voglio velleitarie mescolanze con nessuno, nemmeno più con voi”, ma senza per questo rinunciare a prendere una posizione, semmai al contrario più radicale, operata però tagliandosi ogni ponte alle spalle (ammesso che ne avesse mai avuto bisogno), aprendo una nuova fase. Del resto “c’è una fine per tutto, ma non è detto che sia sempre la morte”.

Il tramonto dell’illusione non è però un fulmine a ciel sereno, e la costruzione a ritroso della maratona ne illumina le radici. Libertà obbligatoria qui è un concerto al sapore quasi di anni ottanta, tra fumo e paillettes, raccontato da dentro il teatro occupato dove si sta registrando l’LP,  dentro cui si trascina un resto simbolico di anni Settanta, trasformandolo in una comune forse ancora in cerca di se stessa e dove tutto si tiene insieme: Cristo rivendica un ritorno ai corpi e Marx si rivela quasi antimarxista.

Il confronto con il movimento a questa altezza è serrato ma meno oppositivo. Ci si riconosce ancora tra simili, ma, con la visione limpida di chi, tra cantautore e poeta ha scelto, senza scegliere, la statura di intellettuale, Gaber e Luporini Sanno di stare osservando un tramonto, una dialettica ormai alla corda.

Ne emerge un lavoro denso ai limiti del disordine, dove le presenze teatrali, Gianluigi Fogacci e Sara Bertelà sono lì a incarnare le contraddizioni di una rivoluzione già mancata, tra chi ancora vuole crederci e chi dibattendosi nell’incertezza, manifesta ancora tutte le compromissioni con il passato che ha preteso di cancellare, nel testo forse più apertamente politico della produzione di Gaber e Luporini.

In questo spietato specchiarsi con noi stessi, in cui quanto più la regia di Emilio Russo si mantiene fedele ai riferimenti dell’epoca più è facile leggere in filigrana la prossimità con l’oggi, l’ultimo tratto del percorso, il primo, temporalmente, si accoglie quasi con sollievo.

Far finta di essere sani è un distillato del teatro canzone più puro, che inanella alcuni dei brani più amati del lavoro dell’artista milanese con l’autore versiliano.

Nato sulla scorta del lavoro di Basaglia, racconta un mondo dove molto è ancora possibile, dove c’è spazio per ironizzare (prima ancora della notissima Lo shampoo, forse in pochi ricordano la sagace Quello che perde i pezzi), ma anche già per riconoscere che la rivoluzione se c’è non è fatta di slogan, ma dall’autentico desiderio di incarnare, concretizzare un’alterità possibile – “Un’idea un concetto un’idea finchè resta un’idea è soltanto un’astrazione. se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione” – che passa anche dall’incontro con l’altro, non sterile individualismo ma autentico ancoraggio al vivere

“Se sapessi parlare di Maria
se sapessi davvero capire la sua esistenza
avrei capito esattamente la realtà
la paura la tensione la violenza.
Avrei capito il capitale e la borghesia
ma la mia rabbia è che non so parlare di Maria
la libertà Maria la rivoluzione
Maria il Vietnam la Cambogia
Maria la realtà.”

Maria, che nello spettacolo teatrale che segnerà la già citata nuova fase del lavoro Gaberiano agli albori degli anni Ottanta (e forse non solo, a sentire i biografi) avrà il volto e la maestria di una regina della scena come Mariangela Melato, prende qui la voce incantatrice di Andrea Mirò, ormai votata al repertorio di Gaber e Luporini e – come già nello spettacolo precedente – capace di offrire un’impronta di grande fascino.

A dialogare con lei, insieme a Enrico Ballardini, i ritmi originali della talentuosa piccola orchestra toscana della Musica da ripostiglio, capace di unire ormai da anni creatività e virtuosismo nel senso più nobile del termine.

Si compone così un pomeriggio ricchissimo per cui vale la pena spendere l’abusata qualifica di necessario, che senza mai affaticare lo spettatore malgrado la durata sta lì a dimostrare non solo la vitalità del suo autore e la bruciante attualità della sua riflessione anche quando è formalmente più risalente nel tempo.

Ma forse soprattutto il bisogno disperato che questo tempo ha, se non di maestri, di creatori di pensiero.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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