La parola al Teatro #94. Giullarate per celebrare le donne. Con Franca Rame

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Una sedia vuota e uno scialle rosso, il segno delle battaglie di una vita, da Soccorso Rosso a, soprattutto, il segno rosso che da anni simboleggia la lotta alla violenza contro le donne.
Al centro del palco del Teatro Gerolamo c’è un’assenza, che è, però, la tangibile presenza di un ricordo. Nell’elegante sala all’italiana di Piazza Beccaria, Franca Rame c’è passata e ha recitato, così come Dario Fo. E quando Lucia Vasini porta in scena le sue Giullarate, lo fa come se la richiamasse, laddove ha vissuto una vita intera.

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Giullarate per celebrare le donne. Con Franca Rame – Lucia Vasini

La prima volta, infatti, è proprio Vasini a raccontarlo, non aveva che tredici giorni. Abbastanza per andare in scena (nel ruolo, manco a dirlo, della neonata) con la compagnia di giro della sua famiglia. L’incontro con Dario Fo, visto in questa ottica, non è che uno sviluppo di una strada già tracciata, e la compagnia Fo-Rame lo spazio dove riversare una vita di maestria.

A lei si deve – e forse lo si ricorda meno del dovuto – molto di quello che a Fo è valso il Premio Nobel del 1997. Alla notizia della vittoria, fu lui stesso a dire: “Lo abbiamo vinto in due”. L’invenzione – o la riscoperta – del gramelot, e il genio che ha dato forma al Mistero Buffo, non sarebbero stati possibili senza Franca. Non è un’evocazione sentimentale, ma un dato squisitamente tecnico, che Vasini sviscera sul palco milanese.

Il capolavoro firmato Fo nasce infatti dai documenti notarili del primo millennio, a margine dei quali si annotavano storie, frammenti, immagini, ad uso di giullare. Quando qualcuno ne consegna a Dario Fo, professione guitto di genio, gli è difficile decodificare. Lo fa, invece, Franca Rame, senza difficoltà. Le basta uno sguardo per riconoscere i canovacci su cui ha formato il suo mestiere teatrale, tra le marionette e la Commedia dell’Arte.

In bilico tra rappresentazione sacra e ironia irriverente, che regala sapore sacro alle storie quotidiane storie laicissime dei contadini: la vita vera, portata in scena, che dona però alle donne quella libertà che dal divino devono prendersi, strappare con una battuta o con la rabbia. Le storie che le istituzioni non hanno voluto, e anche quando sono sacre sono quindi apocrife – piuttosto che false, rifiutate.

È una Maria ai piedi della croce lontanissima dall’accondiscendenza delle agiografie, che scaccia il messaggero che a una promessa divina ha fatto corrispondere il tradimento di una morte tutta umana, è il dolore e l’impotenza di una madre che del figlio, vuole una presenza di carne e sangue. Corpo, umanissimo, e che il divino s’allontani.

Così come è Corpo un’Eva divertente e un po’ guascona, che rivendica la propria primogenitura con un accento pesante che evoca più certe matrone del sud che il lombardo antico – a Milano, ma ormai in tutto il mondo – di una chiarezza limpida, proprio grazie a lui, di cui Fo ha fatto la sua cifra stilistica fuori dal tempo.

È un inno al corpo umano, laddove inno vale nel suo significato originale, per un artista che cantava gregoriano e quella tradizione sapeva piegarla e giocarci fino a farne un divertissement swing, come “il pianto dei piantatori di piante”. In questa ottica, la storia di Giovan Pedro e della sua scoperta della donna – goffa e dolcissima – è un naturale esito: dove la religione delle istituzioni è inchiodata alle ipocrisie di quando si trasforma in potere, se c’è qualcosa di eroico è negli sconfitti, nei traditi.

E le donne rispondono a chi vuol servirsi di loro con maliziosa sagacia e intelligente ironia. Gli strumenti che da sempre – dalla risata di Sarah, moglie di Abramo, in avanti – le sono concessi e ha imparato a padroneggiare. Del resto, come amava ripetere lo stesso Fo, prendendo da Moliere, e così fa Lucia Vasini “per ridere occorre intelligenza e acutezza. Ridere apre la mente, e nel cervello si conficcano i chiodi della ragione”.

Lucia Vasini si fa tramite della voce di Franca Rame – e del corpo di Dario Fo – con una commozione che non ha niente di recitato, e con una maestria d’interprete che prende compiutezza quanto più si consegna, con fiducia e la consapevolezza di una vita, al testo.

Così anche le presenze tornano corporee, e accanto alla risata propria dei giullari fa sorgere l’emozione e la potenza drammatica di cui il teatro, fin dalle origini, fa uso per celebrare l’uomo, inteso come essere umano. Anzi, in questo caso più che mai, soprattutto la donna, intesa come archetipo, e liberata dai ruoli anche quando li incarna.

Maria non è una madre oblativa, ed Eva è una “prima donna” decisamente atipica, mentre l’Alessia amante del prete e sposa suo malgrado del montagnino Giovan Petro dispone del suo corpo a modo suo. Un racconto, questo, che viene direttamente dai Fableaux medievali, cui gli storici si stanno da qualche anno accodando agli attori per restituirne dignità letteraria e capacità eversiva.

Un omaggio alle donne e, con loro, a Franca Rame, che tutte le ha incarnate, che forse non ha lasciato una vera erede, anche perché una vicenda umana – oltre che artistica, tanto ricca – sarebbe quasi impossibile da tramandare. Ha lasciato, però, preziose testimoni. Chi, come Vasini, c’è cresciuta accanto e – arricchendola del proprio talento – fanno risuonare sul palco la sua lezione, e riempire lo spazio scenico di un’assenza quantomai presente.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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