Stranieri Ovunque. La Biennale d’Arte di Venezia di Pedrosa è una vetrina chiusa

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Stranieri Ovunque è il titolo della mostra d’arte internazionale della Biennale di Venezia 2024, curata dal brasiliano Adriano Pedrosa. Questo slogan funge da manifesto per una dialettica critica contro la politica dell’identità nazionale, i confini, lo stato e l’apolidia.

Secondo la dichiarazione curatoriale di Pedrosa, si privilegiano coloro che storicamente sono percepiti come stranieri dal punto di vista politico, sociale e culturale:

l’artista queer, che naviga tra diverse sessualità e identità di genere, spesso perseguitato o messo al bando; l’artista outsider, situato ai margini del mondo dell’arte, al pari dell’artista autodidatta, folk e popolare; l’artista indigeno, spesso trattato come uno straniero nella propria terra.”

Nell’aritmetica brutalmente riduttiva della Biennale, essere uno straniero implica credibilità morale, e questa, a sua volta, si traduce in rilevanza artistica. Da qui, l’inclusione di artisti LGBTQ+ da parte di Pedrosa come stranieri quasi che genere e sessualità fossero prove di un impegno progressista.

È ancora più strano considerare i popoli indigeni del Brasile, del Messico, dell’Australia e della Nuova Zelanda come stranieri; certamente dovrebbero essere esenti da tale etichettatura. In alcune sale della mostra le categorie e le classificazioni prevalgono sulla sofisticazione formale a un livello quasi denigratorio.

Il principale difetto di Stranieri Ovunque è il suo tentativo di raggruppare una serie di esperienze uniche sotto l’etichetta di outsider, come se gli artisti queer, indigeni, autodidatti e/o del Sud Globale fossero tutti simili in qualche modo.

La mostra è sorprendentemente placida, specialmente nei Giardini. C’è una pervasiva sensazione di contenimento in tutta la mostra, che tende a essere percepita come didattica.

Ci sono ampie sezioni di pittura figurativa e, come è ormai consuetudine, arazzi e tessuti allestiti in maniera educata e simmetrica. Questo è particolarmente evidente nelle tre grandi gallerie del padiglione centrale nei Giardini, stipate con oltre 100 dipinti e sculture realizzate in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente tra il 1915 e il 1990.

Queste opere costituiscono la maggior parte di ciò che Pedrosa ha definito il Nucleo storico della mostra, la parte della Biennale che attendevo con maggiore ansia. Aveva promesso di dimostrare che il mondo al di fuori del Nord Atlantico ha una storia dell’arte moderna ben più ricca di quanto i nostri musei principali tendano a mostrare.

Speravo di trovare più disordine, rabbia e fratture, ma nelle sale erano allestite opere di importanza e qualità diverse, con quasi nessuna documentazione storica, contesto culturale o persino piacere visivo.

Le distinzioni tra regimi liberi e non, tra società capitaliste e socialiste, o tra coloro che si unirono a un’avanguardia internazionale e coloro che vedevano l’arte come una vocazione nazionalista, sono state cancellate. La complessità umana degli artisti viene eclissata dalla loro designazione come membri di un gruppo, e l’arte stessa viene ridotta a un sintomo o a una banalità.

Niente nella sezione Nucleo storico, sembra intenzionato a lasciarti a bocca aperta; piuttosto Pedrosa crea un’atmosfera di tranquilla riflessione per invitare a un confronto con le ingiustizie e gli abusi storici.

Questo è particolarmente evidente in The Museum of the Old Colony di Pablo Delano, un archivio di foto e oggetti relativi alla lotta del Puerto Rico per l’autonomia, prima dagli spagnoli e poi dagli Stati Uniti. Vedere tali opere è un potente promemoria che molti degli artisti partecipanti hanno operato e sopravvissuto sotto oppressioni paragonabili.

immagine per The Museum of the Old Colony, di Pablo Delano
The Museum of the Old Colony, di Pablo Delano

Detto questo, la mostra presenta alcune opere affascinanti.

All’ingresso del padiglione centrale, un murale dipinto dal gruppo di artisti indigeni Huni Kuin del Brasile, MAHKU, illustra un viaggio ancestrale attraverso lo Stretto di Bering, dall’Asia alle Americhe, sul dorso di un alligatore.

Un’opera dal tono quasi naïf, che funge da metafora per chi si confronta con la perdita delle proprie radici, con la sensazione di essere straniero e con la condizione di esclusione dai canoni convenzionali di appartenenza nazionale o di identità di genere.

immagine per Movimento degli Artisti Huni Kuin (MAHKU)
Movimento degli Artisti Huni Kuin (MAHKU)

Sono di grande bellezza e di forte impatto l’opera Tela Venezuelana di Teresa Margolles che porta l’impronta misera del corpo di un migrante venezuelano ucciso mentre attraversava la Colombia nel 2019 e L’esilio è un lavoro duro, l’opera dell’artista turca ma residente a Parigi, Nil Yalter (vincitrice del Leone d’Oro) progetto che ha realizzato nel 2012 a partire da Turkish Immigrants, con cui ha documentato la vita e la lotta dei migranti nelle periferie di Istanbul, New York e Parigi.

In particolare, sono esposti i manifesti di grande formato e le video interviste che l’artista ha realizzato con una Portapak della Sony.

immagine per Teresa Margolles, Tela Venezuelana (2019)
Teresa Margolles, Tela Venezuelana (2019)
immagine per Nil Yalter, Exile is a Hard Job (1977–2024)
Nil Yalter, Exile is a Hard Job

Tra gli artisti più giovani c’è Louis Fratino con una serie di opere pittoriche che indagano le strategie di socializzazione adottate dalle persone LGBTQ+ per navigare la loro esistenza come emarginati nel tessuto sociale.

L’ultima produzione artistica di Fratino, in dialogo con i nudi classici di De Pisis, si distingue per un vibrante carico emotivo ed emerge come una potente risposta politica alle sfide sociali che le persone queer continuano a incontrare globalmente.

immagine per Louis Fratino
Louis Fratino

Non si può non rimanere affascinati dal progetto Disobedience Archive, curato da Marco Scotini, che si manifesta come un organismo vivente all’interno del contesto del Nucleo Contemporaneo dell’Arsenale.

L’installazione esplora tematiche e periodi significativi quali il femminismo e l’ecologismo, attraverso le creazioni di 39 artisti e collettivi operativi tra il 1975 e il 2023. Concepita come un’archivio in divenire di immagini video, assume la forma di un atlante delineando un panorama di narrazioni, geografie e strategie legate alla disobbedienza sociale.

La struttura espositiva si divide in due sezioni principali: la prima dedicata al Diaspora Activism, focalizzata sui processi migratori transnazionali; la seconda, denominata Gender Disobedience, si impegna a decostruire il binarismo di genere.

immagine per Disobedience Archive
Disobedience Archive

Altra opera degna di nota è quella di Karimah Ashadu nata a Londra ma cresciuta in Nigeria, che concentra il suo lavoro sugli ambienti urbani e sociali di quel paese. Il video Machine Boys esplora il mondo degli okada, i mototaxi che un tempo affollavano la metropoli di Lagos.

Nel 2022, a seguito di numerosi incidenti e della difficoltà nel regolare l’economia informale legata a questi mezzi, è stato introdotto un divieto che ha portato a sanzioni penali per passeggeri e conducenti. L’artista esamina le ripercussioni di questa normativa sulle classi sociali più vulnerabili, documentando le routine e le sfide quotidiane dei motociclisti.

Queste figure rappresentano un determinato modello maschile, dai codici di abbigliamento alle manifestazioni di mascolinità. Ashadu, analizzando questo fenomeno, riflette sugli ideali patriarcali nigeriani e sulla fragilità di un gruppo di lavoratori esposti a condizioni di precarietà.

immagine per Karimah Ashadu, Machine Boys
Karimah Ashadu, Machine Boys

L’installazione multischermo The Mapping Journey Project di Bouchra Khalili cattura la mia attenzione, l’artista marocchina ha incontrato migranti dall’Africa, dal Medio Oriente e dal Sud Asia nelle stazioni ferroviarie e li ha registrati mentre descrivono i loro disperati viaggi attraverso il Mediterraneo verso l’Europa.

Avanzando avanti e indietro cercano sicurezza, per quanto temporanea, e un modo per sopravvivere.

immagine per Bouchra Khalili, The Mapping Journey Project
Bouchra Khalili, The Mapping Journey Project

Isaac Chong Wai, partendo da un episodio personale di aggressione e attraverso un intreccio di coreografia e azioni spontanee, esplora con l’installazione Falling Reversely temi di violenza, concentrando la sua attenzione sugli attacchi ai migranti asiatici, in particolare di origine cinese, sia in Europa che in altre parti del mondo, e sulle violenze contro gli individui queer.

immagine per Isaac Chong Wai, In Falling Reversely
Isaac Chong Wai, In Falling Reversely

Ero entusiasta della nomina di Pedrosa a curatore di quest’edizione della biennale, speravo di vedere la stessa forza del lavoro che ha fatto al Museo d’Arte di São Paulo, una delle istituzioni culturali più innovative del Sud America ideando un ciclo di mostre che attraversavano i secoli, ridefinendo l’arte brasiliana come un crogiolo di influenze africane, indigene, europee e panamericane ma purtroppo il risultato del suo lavoro è una buona mostra museale anche se un po’ disconnessa ma di certo non è quello che io e molti altri volevamo vedere in biennale.

Per concludere quello che Pedrosa ha realmente portato a Venezia è una vetrina chiusa, controllata e a volte denigratoria, che appiattisce tutte le distinzioni e le contraddizioni di un patrimonio globale.

  • La 60a Esposizione Internazionale d’Arte, a cura di Adriano Pedrosa, si svolge fino a domenica 24 novembre 2024.

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Micol Di Veroli (Roma, 1976) è storico dell'arte, critico e curatore indipendente. È membro dell'AICA - Associazione Internazionale dei critici d'arte. Dal 2010 è curatore della Glocal Project Consulting e collabora con diversi musei internazionali realizzando progetti volti a promuovere e a sostenere l'arte italiana all'estero.

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