PordenoneLegge #9. Sicilian Ghost Story: la favola d’amore per Giuseppe Di Matteo.

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Alle vittime di mafia sono dedicate scuole, vie, spazi pubblici. I luoghi che frequentiamo tutti i giorni ci ricordano le tante storie di orrore e coraggio di cui è popolata la storia italiana.
Nessuna targa però ricorda Giuseppe Di Matteo. Il suo nome si è perso per molti. A qualcuno viene in mente se si parla di lui come «il bambino sciolto nell’acido»: una delle più crudeli vendette della mafia quando suo padre, Santino Di Matteo, scelse di essere collaboratore di giustizia e raccontare ai magistrati modalità, mandanti ed esecutori della strage di Capaci, che il 23 maggio 1992 uccise Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

Prima del drammatico epilogo, però, c’è stato altro. Anche questo non noto a molti. La vita di un ragazzino che amava i cavalli, e il 23 novembre 1993 fu rapito da uomini vestiti da agenti della DIA. Seguì la parte più tremenda di questa terribile storia: 779 giorni di prigionia, più di due anni, di «solitudine, di privazione della sua umanità, durante i quali Giuseppe di Matteo fu ridotto a una larva di nemmeno venti chili», prima che i suoi carcerieri se ne liberassero come sappiamo.

Una giovane vita a cui i registi Fabio Grassadonia e Antonio Piazza hanno deciso di rendere nuova giustizia con un film, che ha aperto la Quinzane de Realizateurs dell’ultimo Festival di Cannes, presentato a Pordenonelegge con la moderazione di Nicola Lagioia. Si intitola Sicilian Ghost Story, e ha una genesi che parte da lontano.

Prima che i due registi completassero il primo lungometraggio, Salvo, si imbatterono in un libro, Non saremo confusi per sempre, di Marco Mancassola. Lo scrittore veneto ripercorre alcuni dei più tragici casi di cronaca italiani. Non fa nomi, «per pudore», spiega nel corso della presentazione pordenonese, ma le storie sono riconoscibilissime, e colpiscono forte la coscienza del lettore. Il diciottenne pestato dalla polizia a Ferrara nel 2005, il bambino caduto nel pozzo di Vermicino. E poi quello sciolto nell’acido: Giuseppe di Matteo. I due registi, che hanno lasciato la Sicilia da tempo, capiscono che, se mai avranno modo di fare un nuovo film, sarà quella la storia che vorranno raccontare, perché sarà utile a tanti. A loro, innanzitutto, per «tirarla fuori dal buio del risentimento non condiviso nei confronti della Sicilia», e agli altri.

Vogliono «trasformare la rabbia repressa in un atto d’amore verso un bambino, realizzato da ragazzini siciliani suoi coetanei che possa coinvolgere ed emozionare proprio i suoi coetanei di oggi», che spesso nulla sanno di lui.  Esattamente ciò che sta accadendo e accadrà in questi mesi, in cui il film, dopo la fortunata accoglienza della critica internazionale, inizierà un tour di proiezioni nelle scuole a cura della casa di produzione Indigo Film (disponibile a contatti per organizzare le proiezioni)

I due registi hanno voluto realizzare questo atto d’amore trasformandolo in una favola, «lasciando libera la propria fantasia, sfuggendo alla dittatura del già successo ma tenendo sempre fermo l’orrore di ciò che è realmente accaduto», regalando al piccolo Giuseppe quello che nella vita non ha mai avuto, l’amore di una compagna di classe innamorata di lui, Luna, costretta a fare i conti con la sua assenza. E con il bisogno di reagire, in un mondo in cui invece gli adulti sono divisi a metà tra gli orchi, i carcerieri – cui non è concesso neppure lo status di personaggi a tutto tondo – e gli altri, gli omertosi. E la disperazione delle madri, chiuse ciascuna a modo suo «in un dolore passivo, egoista, che cerca di proteggere il sangue del proprio sangue a qualsiasi costo». Al punto che la madre di Giuseppe non esita, una volta capito che solo Luna può raggiungere Giuseppe nel mondo cui ormai appartiene, quello dei morti, non esita a spingervela.
Piazza e Grassadonia sperimentano così una originale commistione di genere dove c’è spazio per tutto: il dramma, l’amore, la parabola di formazione di una ragazzina che nel chiedersi «che fine ha fatto Giuseppe?» domanda e si domanda che fine ha fatto la nostra innocenza, di individui e di Paese.
Una domanda posta con la forza che compete all’arte. Chiosa in chiusura Lagioia, ai ragazzi ma non soltanto: «il racconto ufficiale è affidato alla cronaca, il racconto reale alle arti. Senza la cronaca sareste meno informati. Senza le arti, sareste meno umani».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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