Accarezzare contropelo. Intervista a Giorgio Vasta

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Giorgio Vasta, foto di Chiara Pasqualini

Book Pride 2018  arriva a Milano annunciandosi con incontri, riflessioni, confronti. Arriva con un programma vastissimo che esplora tutte le pieghe della Vivente e del Vivibile. Arriva, soprattutto, con un’idea ben precisa di cosa sia la cultura editoriale e del perché sia importante averne cura. Ce ne parla Giorgio Vasta, direttore creativo di questa edizione.

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Giorgio Vasta, foto di Chiara Pasqualini

Questa è la prima volta che Book Pride sceglie un direttore creativo. La scelta ricade su di te, che sei scrittore ma anche sceneggiatore. Come hai immaginato la sceneggiatura, la narrazione di questo Festival?

In questi mesi mi è successo che, per organizzare una fiera dove l’elemento centrale sono i libri, ho dovuto ridurre drasticamente il tempo per leggere e scrivere. È un paradosso: le due cose che più ti interessano – leggere e scrivere – vengono meno per qualcosa che c’entra con i libri, che ne sono il punto interstiziale. Poi però mi sono accorto che prima era come se oltre all’esperienza in sé della scrittura e della lettura, mi fosse mancato un nucleo nevrotico che sta fra le due.

Cioè: se per me leggere fin da ragazzino aveva a che fare soprattutto con l’eliminare, il ridurre di un’unità il parco del leggibile, la scrittura ha che fare con un elemento di controllo delle variabili. Variabili che tu stesso produci: le frasi, le parole. E mi sono accorto che tutto questo nucleo nevrotico, finalmente riunito, non è sparito. Si è trasformato e ha informato di sé tutto il lavoro sulla fiera.

Volevo organizzare una fiera con lo stesso impulso nevrotico che governa la scrittura di un libro. Perché ti mette davanti a un’infinità di variabili a cui devi dare una forma.

Solo che mentre scrivi la negoziazione è tutta interna, nell’organizzazione della fiera hai una moltiplicazione di interlocutori esterni, tutti reali. Quindi hai meno governo sulle cose. C’è il denominatore comune della cura, di questo nucleo nevrotico che non deve essere eliminato ma messo a frutto.

E in questo evento che sembra avere una vita propria, che si articola, si espande e si espone a una perpetua perfettibilità, che importanza ha un tema come “Tutti i Viventi”?

Avevamo il desiderio che il tema non fosse pretestuoso ma fosse il cardine, l’elemento di regia che determina ogni singolo incontro. Per me il tema di una manifestazione deve trovare le sue declinazioni, le sue possibili accezioni in ogni singolo incontro del programma.

Questa è la ragione per cui abbiamo scelto di non concepire un festival in cui l’organizzazione di Book Pride produce una decina incontri e il resto è il programma editori, in cui ogni editore decide che incontri realizzare. Si è invece deciso di parlare con ogni casa editrice e discutere di ogni proposta.

Venendo ora alle specifiche del tema: la sua formulazione deriva da un contesto intrinseco a Book Pride. Quando mi è stato proposto l’incarico sono andato a leggermi il materiale che esiste e il manifesto di Odei, e a un certo punto c’è un passaggio in cui si fa riferimento al compito di tutela che si dà Odei nei confronti dei viventi del comparto editoriale. Viene specificato: “tutti i viventi”. mi aveva colpito questa affermazione, questa perentorietà, come se ci fosse qualcosa di letterario che affiora in un testo di altra natura. E mi sono chiesto se questa locuzione indefinita e suggestiva non potesse essere anche una tematica per tutto il Book pride. Perché in questo contesto veniva ad assumere non solo il significato biologico (tutto ciò che nasce si sviluppa e muore). In un contesto letterario, infatti, questa nozione è insufficiente perché chiunque abbia letto un libro sa che un vivente è frutto anche dell’immaginazione. Come viventi, rendiamo viventi tutto ciò che abbiamo intorno o nel gioco o nella lettura.

E poi tutti i viventi è una frase che si guarda intorno, una panoramica che ha a che fare con un desiderio di percepire ma anche di essere percepiti. Ecco: all’editoria indipendente si attribuisce sempre il desiderio di volersi percepire ed essere percepiti in chiave vittimistica. Come soggetto che resiste. Bookpride è un soggetto adulto che vuole essere percepito come tale.

Proprio per questo, anche in confronto a manifestazioni diverse, che hanno altre motivazioni e altri scopi, ci chiedevamo quali potessero essere un’etica e una poetica dell’indipendenza di una fiera soltanto di indipendenti. Non inteso come atto di resistenza ma come esistere in quanto soggetto maturo.

Fra gli incontri svolti a Base in preparazione a Book Pride, ce n’erano due dedicati alla riflessione su queste due parole che nel senso comunque vengono spesso mitizzate: orgoglio e indipendenza. L’orgoglio vissuto come uno stato d’animo resistenziale. E invece si è deciso di legare l’orgoglio alla cura.

Un editore ha ragione di essere orgoglioso in virtù della quantità e della qualità della cura che riserva ai suoi libri. Per quanto riguarda la parola indipendenza, dentro Book pride è facilmente equivocabile, sembra che venga considerata con sdegno elitario. Ormai l’etichetta INDIE viene naturalmente imposto a contenuti di ogni tipo, un marchio di garanzia.

Talmente usato che non si capisce bene cosa voglia dire. La parola indipendenza, invece, ha un significato profondamente oggettivo. Si intende quell’editore che economicamente si regge sulle sue gambe, e per questo motivo voglia stare alle proprie regole. Credo che per questo sia fondamentale avere un’idea di mondo. Che va dalle traduzioni alle scelte al layout. Stai nel mercato che ti lascia fare ma non ti percepisce come un soggetto rilevante.

Poi c’è un momento per cui per una serie di circostanze il mercato si accorge di te. E comincia a pretendere: devi continuare a essere un soggetto rilevante, a mantenere una posizione. Ora: a questo punto sta all’editore non adeguarsi alle richieste, ma rimanere un soggetto rilevante proprio perché ha un’idea di libro.

E ci sono esempi straordinari: Adelphi, Sellerio, minimum fax. C’è un’idea di editoria profondamente autoriale in cui l’editore ha fiducia nell’umano, ha fiducia che l’umano sia qualcosa che progressivamente può migliorare attraverso una proposta che lo migliora. A volte capita in libreria alle fiere di trovarsi davanti a qualcosa di profondamente offensivo, una specie di proposta editoriale di politiche populiste. Editori che preferiscono lisciare il pelo e non fare quello che un editore dovrebbe fare, cioè citando Benjamin; accarezzare contro pelo.

E dispiace quando un editore che fino a un certo punto ha mantenuto una proposta di un certo tipo comincia a cambiare. Perché rinuncia a una facoltà che il mercato gli ha dato: essere un soggetto influente, fare un discorso che in molti ascolteranno. Correndo il rischio che questi molti si riducano.

Quindi come etica e poetica direi che la cosa che ho preferito è che la stragrande maggioranza degli autori sono portatori di una cultura editoriale. Che non è una limitazione, ci sono modi molto differenti di essere editori.

Ma c’è sempre un’idea di libro. Mi colpiscono esperienze fieristiche in cui ha la sensazione che la metà dei presenti non siano portatori di una cultura editoriale per il semplice fatto che non sono editori. Sono istituzioni, sono enti. Hai l’impressione che il libro si mescoli e si confonda strategicamente con il libroide, ovvero quello che è veicolato dalla struttura editoriale ma non ha un’intenzione letteraria, è la prosecuzione di un discorso televisivo con mezzi editoriali, un lavoro di manutenzione di un successo.

Penso che quello che ha senso è ragionare sulle fiere e sui festival pensando a quando cultura editoriale portano. Pensando anche a quanto è utile portarla. Perché sicuramente annacquarla, confonderla è una strategia estremamente efficace rispetto a consolidarla e mantenerla. Perché non metti in crisi nessuno.

Ti sei trovato ad avere fra le mani la possibilità di contribuire realmente alla diffusione di cultura editoriale. Come si traduce questo progetto in realtà?

Si è cominciato a ragionare fin dalla primissima telefonata partendo da una metafora sensoriale che è un problema sistematico, strutturale di molte fiere: quello del rumore di fondo. Non solo un fatto acustico, ma anche quello di non essere capace di far emergere un disegno, una dimensione di senso che possa affiorare per un po’, esse percepita ed essere condivisa. Pur sapendo di non potersi affermare, ma poter rimanere come ricordo, come presentimento.

Per questo il tema si articola in otto sottotemi e si dirama in duecento interventi. Questo non è l’unico modo, né il migliore, ma è quello che abbiamo scelto a questo scopo.

Tutto questo non pensando a un’editoria indipendente intrinsecamente migliore di altra, ma curando esclusivamente della cultura editoriale. Con lo scopo di far emergere un’idea di autorialità, che di solito è riservata ad autore e editore, ma che invece appartiene anche al lettore e alle sue scelte.

Scelta di entrare in una libreria e non in un’altra, di dare attenzione a un libro o a un altro. Quanto più si estende l’idea di autorialità tanto più l’editoria indipendente ne trae vantaggio.

Ti aspetti, o meglio ti auguri che questo accada?

Quello che mi auguro è che si possa soprattutto proporre quella che è stata in questi mesi la nostra idea di senso. Ma soprattutto di rendere tutto il pubblico consapevole della propria capacità di interpretare questo tema.

Faccio un esempio specifico: abbiamo chiesto a cinque autori di creare una bibliografia che descrivesse la loro interpretazione del tema “Tutti i Viventi”, scegliendo prevalentemente libri che saranno presenti in fiera. Ne sono uscite cinque costellazioni di testi che non sono altro che cinque autobiografie. Vorremmo che per tutto il pubblico succedesse lo stesso.

Non dare tanto un contenuto, ma un metodo. Vorremmo che ognuno costruisse la propria lettura, il proprio schema di senso, cominciando proprio dall’accorgersi che lo può fare.

È quando cominci a metterci attenzione, a prenderti cura che crei relazioni, che costruisci un senso.
Quello che mi auguro è questo: che le persone rendano palese a sé stesse di avere una facoltà autoriale, di creare connessioni, di dare un senso.

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Nata a Parma nel 1995 e qui incamminata sulla via degli studi umanistici, dal 2014 risiede al Collegio Ghislieri di Pavia. Nell'Ateneo della città studia Lettere Moderne e muove i primi, incerti, decisi passi verso la Storia dell'Arte Contemporanea. Sprovvista della esperienze e della sicurezza che occorrerebbero per parlare di se stessa in terza persona, si limita a seguire ogni strada buona con tutti gli strumenti possibili - che siano un libro, una valigia, un biglietto del cinema. Non sa quello che è, non sa quello che vorrebbe diventare: in mezzo, la voglia di non risparmiarsi e una passione sempiterna per la scrittura e per la cultura dell'Europa centro orientale.

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