Pordenonelegge #4. Una e una notte. Attraverso Flaiano una travolgente Maria Paiato esplora la crisi dell’umano

Maria Paiato

Indolente, giovane ma non non abbastanza da conservare i sogni dell’adolescenza, intrappolato suo malgrado in un lavoro da giornalista che lo ingabbia. Questo è Graziano, protagonista del romanzo breve Una e una notte, di Ennio Flaiano, la cui lettura scenica inaugura il ciclo tra teatro e letteratura del teatro Verdi di Pordenone.

Un protagonista che – uscito dalla penna dello sceneggiatore delle più grandi opere felliniane non potrebbe descriversi altro che come “vitellone”. Assorbito in una girandola di serate mondane e relazioni (sessuali più che amorose) che da cui si lascia semplicemente attraversare. Un giovane che si sente «fatto per un’altra vita», così come la giovane, sciapa e un po’ posticcia Doris, friulana e audace, con cui si accompagna senza partecipazione né sforzo.

Si muove per le strade di una Roma slavata tratteggiata per brevi scorci, sospinto solo da un desiderio – sessuale, ma forse piuttosto di riconoscimento – che non è però minimamente in grado di governare. Certo di conoscere il mondo, soprattutto quello femminile, e di penetrarne le intenzioni più di quanto esse stesse non siano in grado di fare, e pertanto di poterne disporre come di corpi senza volontà, creature elementari spinte da un pudore ipocrita, finisce con il non risultare altro che completamente, brutalmente fuori luogo.

Un goffo, viscido e in fin dei conti patetico adolescente troppo cresciuto in cerca di una qualche gratificazione, rassegnato alla consapevolezza che «nessuno è al centro di niente», e per cui anche l’intellettualismo è un esercizio pigro, buono al massimo per una frase spaccona da offrire a una ragazza appena conosciuta, o per aspirare ad un incarico senza fatica, lontano dal mondo.

È, in fin dei conti, un’atmosfera estremamente malinconica quella che sottende al racconto cui Maria Paiato risalta, per contrasto, ed in ossequio allo stile di Flaiano, la dimensione ludica. Ne offre quindi una interpretazione fresca, divertente, punteggiata di musiche swing e jazz, appoggiando la narrazione, di quando in quando, a suoni che potrebbero essere i jingle che accompagnano la quotidianità spicciola di individui come Graziano. Cui può talvolta capitare, come a lui, nel più totale disinteresse, di raccogliere materiale sugli UFO.

Mentre quello che raramente accade è che proprio uno di essi si trovi a sostare sul litorale romano, e che Graziano sia quindi mandato a coprire la notizia. In un’atmosfera tipiacamente felliniana continuamente liminare tra realtà e fantasia, verosimiglianza e assurdo, Graziano osserva persino un tale avvenimento senza ammorazione.

Quella che (solo apparentemente) prova per Marta, l’ennesima desiderata conquista di un fugace sguardo nella notte che si rivela provenire dall’astronave, sulla quale porterà con sé il nuovo amante. Qui, si tratteggia per lui il sogno di certo sguardo maschile sulle donne: il paradigma della compagna oblativa, solerte, devota fino all’annichilimento, che dimostra potere su un gruppo di uomini ma non su quello a cui ha giurato amore, e che allo stesso tempo lo tratta con la condiscendenza con cui si tratta un animaletto da compagnia un po’ molesto, mosso dagli istinti, che riconosce se stesso solo nell’ebbrezza della conquista.

E che rivela la propria meschinità proprio quando può scegliere, svelando il terrore dei propri stessi desideri: di fronte alla possibilità di una libertà senza fine, persino ultramondana, non cerca altro se non trornare a esercitare il suo potere nella ristretta cerchia di ciò che può controllare, con i pochi, sciocchi strumenti che possiede.

Quella che Flaiano tratteggia è una parabola di degrado calata in un contesto paradossale che si direbbe aver fatto da spunto alle ambientazioni create pochi anni dopo da Copi, completo di orge surreali, in cui l’individuo si svuota di ogni senso profondo. Lo fa però con ironia, impagabile leggerezza che proprio per questo svela ancora più chiaramente il disincanto tra le pieghe della risata e dell’evasione.

A dare forza e a sostenere l’intera architettura è però la straordinaria maestria di Maria Paiato, che si cala nel solco del gioco scenico – che altrimenti poco ci metterebbe ad esser preso nient’altro che come un divertissement – riempiendolo di sfumature.

Su un palcoscenico nudo, quasi ferma dietro a un leggio, Paiato si moltiplica, facendosi orchestra dall’assolo della sua voce. Calamita l’attenzione e dà corpo credibilmente ai diversi personaggi, lascia ridere ed evoca i sottotesti, senza che nemmeno per un attimo si senta la mancanza di tutti gli artifici della scena che non ci sono.

L’attrice veneta riesce nel raro intento di costruire un reading per addizione, anziché per sottrazione, ammaliando senza ricorrere al sentimentalismo retorico o alla commozione, anzi facendo muovere la fascinazione da caratteri che sarebbero persino respingenti. In un’ora e dieci offre la sintesi perfetta del potere creatore che l’attore ha sul narratore: la capacità di arricchimento che moltiplica l’eco della fascinazione.

 

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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