Pordenonelegge #5. L’antropologia insegna, la cultura e lo spostamento ci rendono umani

Adriano Favole

Antropologia. Una scienza suggestiva e vagamente esotica, a molti pressochè ignota. A colmare questa lacuna pensa Pordenonelegge, che offre ad Adriano Favole l’occasione di sciorinare una densa eppure limpida sorta di lezione sul proprio mestiere, a cominciare dalla definizione.

Fare l’antropologo, spiega, significa ritenere che qualunque società è degna di esserne studiata. Non si tratta però, di puro esotismo. Oggi è anche un’antropologia del qui, chiarisce, ma continua a pensare che per capire cos’è realmente umano è capire come essa si realizza nel mondo.

Significa anche avere una disposizione verso i corpi. Significa soprattutto muovere dalla consapevolezza che tutti apparteniamo a una cultura ma essa ci sta stretta, e studiare le vie che ogni società trova per uscirne. È il concetto delle vie di fuga, per Favole fondativo.

Concedendosi una rapida disamina storica annota che, antropologicamente, il Novecento è stato «un allargare di quello che noi siamo in termini di soggetti culturali». Ne deriva, ad esempio, che oggi per la prima volta nella storia nessuna terra può essere riconosciuta come “di nessuno” e soggetta a conquista, perchè a nessuno può essere negato lo statuto di soggetto culturale.

La cultura ci rende umani, sintetizza l’antropologo, con un saggio omonimo pubblicato da UTET ma a prezzo di rischi e di limiti. Tra i primi il fatto di essere costruiti dalla cultura: non abbiamo modelli sociali predefiniti, siamo dei costruttori di società. Però non siamo naturalmente degli esseri sociali.

Esistono tecniche e modelli che si possono seguire, e quindi, spiega, costruire società è un sapere, e come tale deve essere affidato con cura a chi sappia guardare lontano. Tuttavia, aggiunge Favole «noi costruiamo società a patto di diventare particolari, mentre creare società significa sperimentare possibilità».

Un’immagine già cara all’antropologo Clifford Geertz, di cui è rimasto celebre un aforisma: «l’uomo potrrebbe vivere mille vite e finisce col viverne una sola». Favole ne fa derivare un corollario denso di significato: gli altri vivono le vite che non abbiamo vissuto.

Un altro dei rischi della cultura è poi l’autoreferenzialità. È sufficiente notare che molti termini con cui le popolazioni si designano significano “essere umano”: Maori e Inuit, ad esempio. Definendosi in questo modo esse si definiscono per opposizione, distinguendosi da ciò che non è umano.

Il concreto pericolo, dunque, è che l’inevitabile particolarità finisca con il definire portare a definire l’umanità come attributo propria della propria cultura o etnia.

Per scongiurarlo, occorre ricordare che ogni uomo ha una tensione verso l’altro, med anche per questo le culture non possono essere separate per compartimenti stagmi. Per evitarlo è bene continuare a praticare le vie di fuga.

Tuttavia, il concetto di cultura ha anche dei limiti, secondo Favole. Il primo è che non siamo solo esseri culturali. Noi ci rapportiamo con un mondo esterno; le culture non sono onnipotenti, si iscrivono in ambienti che hanno dei limiti ecologici. Per questo Favole preferisce opporre coltura e incoltura, da intendersi non come assenza di cultura, ma nella sua accezione botanica: una riserva di possibilità che potrà diventare colto, che ha delle possibilità per l’essere umano ancora da scoprire. È il terreno dei cadaveri, che non sono più cultura, e degli spiriti, l’oltre cultura.

La distinzione tra questi due stati spinge a riconoscere, pertanto, che l’individuo si muove entro limiti personali, fisici, ma anche sociali, che sono appunto le vie di fuga a spezzare. Fughe che possono essere prima di tutto simboliche. Quelle, ad esempio, fornite dai molteplici significati del verbo inglese to play: giocare, suonare, recitare. Poeticamente eppure con efficacia, Favole lo definisce: «giocare è una faglia di realtà, aprire una crepa nella realtà quotidiana, fornisce uno specchio per guardarsi da un’altra prospettiva».

Lo sa, evidentemente, l’associazione promotrice, Io gioco, che alll’interno del proprio statuto specifica che il gioco definisce un’etica dell’altro. Giocando, bambini ed adulti si sperimentano autenticamente diversi da sé, e in un “facciamo che ero” possono osservarsi agire, come al di fuori di sé.

Praticando però anche una sospensione dalla realta, un recinto spazio temporale che altro non è se non una fuga dall’ordinario. Si crea così uno spazio di metacultura che ci permette di definirci come umani. Crea delle btreccie nelle culture che ci avvolgono, ci fanno stare al mondo ma hanno bisogno di aprire degli squarci di respiro.

Le vie di fuga sono però soprattutto fisiche, e non possono essere applicate parzialmente.

Favole esprime una interessante e feconda visione del fenomeno dell’immigrazione Noi ragioniamo sempre – spiega – come se gli altro dovessero star chiusi nella loro cultura. «Il migrante è qualcuno che sta uscendo dalla sua cultura, un fuggiasco. E più ne blocchiamo le vie di fuga più alimentiamo le visioni autoidilliache degli integralismi». La possibilità delle vie d’uscita non può non valere anche per gli altri, e ad ogni modo la rappresentazione dell’alterità come chiusa nei recinti non è rispettosa delle culture.

Gli uomini conclude, somigliano a piccoli insetti acquatici, i portasassi assumono il colore del tratto di fiume in cui sono, si costruiscono una corazza con ciò che trovano nel loro luogo e nel corso della storia. Eppure poi anche il portasassi diventa farfalla ed esce dal suo ambiente naturale, l’acqua, a sua volta si costruisce una via di fuga.

Le culture di tutto il pianeta, lungo i millenni, hanno sempre tramandato questa lezione, se anche un antico canto maori recita: «l’orizzonte ci attira verso di sè, ci spaventa, apre la strada del non tracciato che la nostra imbarcazione deve percorrere».

Possiamo costruire muri finché si vuole, si congeda l’antropologo, offrendo uno spunto prezioso in tempi di sguardi sempre più brevi – ma l’orizzonte delle altre culture non smetterà di attrarci.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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