inQuiete Festival di Scrittrici #5. Salvare la memoria, custodire il controverso. Laudomia Bonanni secondo Giulia Caminito

Laudomia Bonanni è un nome che non dice niente quasi a nessuno. Le droghe, il suo ultimo romanzo uscito per Bompiani nel 1982, già introvabile due anni dopo. È ancora viva ma sente già dimenticata. «Bisogna darsi d’intorno», commenta in un’intervista concessa nel 1984. Anche il Premio Strega è ormai diventato, da club letterario, «un gioco editoriale». Muore nel 2002, chiusa in casa e autocondannata al silenzio, dopo che nel 1995 Bompiani ha rifiutato il suo ultimo romanzo, La rappresaglia, uscito postumo.

Riconosciuta da Montale e Bellonci. Laudomia Bonanni è la protagonista del più suggestivo, insolito e contraddittorio dei Ritratti di Signora di InQuiete.

Nata a L’Aquila, a diciassette anni diventa insegnante nei centri rurali, dedicandosi ai bambini. Nel 1927 si iscrive al Partito Fascista, diventando intellettuale del regime, e poi, nel 1938, giudice non togato del Tribunale dei Minori de L’Aquila. Una pagina complessa della sua vicenda, che inevitabilmente condiziona, almeno parzialmente, la futura fortuna dell’autrice.

Giulia Caminito, che la racconta, annota però che, «dal ‘39 in poi, nei romanzi inediti, non ha mai contenuti fascisti ma sempre antibellici». È, sintetizza, «una figura trasversale, che lega la propria opera al lavoro sul campo, che ha a che fare col sociale», ed è in questa necessità che va intesa, probabilmente, la sua adesione al potere che era il solo mezzo per agire. In lei, chiarisce Caminito, si realizza l’inedita compresenza di un “altissimo livello intellettuale e un praticissimo livello sociale”.

La giudice e l’insegnante abruzzese si trova catapultata nei circoli letterari quasi all’improvviso. Nel 1945 partecipa a un concorso degli Amici della domenica, e vede alcuni suoi racconti lunghi pubblicati, nel 1948, nell’antologia Il fosso. Nello stesso anno vince, prima donna a farlo, il premio Bagutta opera prima.

Poi però il suo successivo romanzo viene rifiutato, Mondadori nemmeno la riceve e lei si scopre inseguita dalla paura dell’oblio. Dalla rottura del rapporto con Mondadori prende però avvio la sua carriera.

Con L’imputata, nel 1960, comincia la travagliata collaborazione con Bompiani. L’adultera, che segue, viene accolto bene. Si chiuderà poi nel silenzio silenzio, forse preda di una violenta depressione, nonostante gli anni dopo il trasferimento a Roma del ‘69.

Un isolamento rotto nel 1974, con Vietato ai Minori. In queste pagine, per prima, racconta i luoghi di detenzione dei bambini nei quali si era trovata lungo la sua esperienza. Getta così un cono di luce un tema poco indagato fatto di luoghi terribili, nei quali rimangono le memorie della guerra,

Dopo Citta del tabacco (1977) e Il bambino di pietra (1979). Le droghe viene quasi ignorato, nonostante, scriveva l’autrice, una «prosa di una leggerezza e di una precisione che mi lascia soddisfatta».

La rappresaglia, pubblicato postumo nel 2003, ha una genesi fortemente esplicativa. La prima stesura, risalente al 1948 e titolata Stridor di denti, non vede la luce. Nel ‘52 gli studiosi annotano un probabile recupero perchè ne appaiono tracce sui giornali sui quali Bonanni scriveva, a cui segue una nuova, inspiegata sparizione.

Nel 1985, dopo una revisione quarantennale, Bonanni lo ripropone per vederselo rifiutato da Bompiani come da Mondadori.
Complice probabilmente il contenuto, e in particolare la sua protagonista.

La Rossa è una partigiana che può essere ironia e cinica. Spavalda, controversa, che non si cura di sè nè del figlio. Provoca, esce dal coro. Non chiede clemenza e non la offre.

In questa narrazione, spiega Giulia Caminito, i fascisti sono deboli: qui è la storia che si vendica sul fascismo, non è una storia di partigiani e fascisti. I ruoli di carnefice e vittima si ribaltno in continuazione, ed è questa la più sorprendente e significativa caratteristica del romanzo.

In queste pagine si sintetizzano i motivi per i quali Laudomia Bonanno è una scrittrice significativa, originale e degna di memoria. Dice Caminito, in un’interessante analisi non priva di provocazioni: “Poco in linea col dopoguerra, solitaria nel suo realismo atipico, racconta la fragilità ma anche la crudeltà dei bambini. Ma soprattutto la sua rilettura delle donne è interessante, e la loro descrizione sempre sul filo della critica”.

Una lezione che può rivelarsi utile, commenta Caminito, in un tempo che divide con molta facilità le donne in carmefici o vittime. «Per contrastare le critiche alle donne bisogna guardare quelle donne al limite, alle autrici che propongono donne dai molti volti e recuperare anche ciò che potremmo contestare, ma riconoscendone il valore letterario».

Senza risparmiarsi una stilettata finale alla letteratura di consumo, conclude che è probabilmente questo il modo migliore per capire anche il presente: non lasciare «morire d’indifferenza la storia della nostra letteratura».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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