Più Libri Più Liberi #12. Due romanzi forti e rivelatori: Carnaio e Vite bruciate.

Giulio Cavalli - ©Musacchio, Ianniello & Pasqualini

C’erano in programma nell’ultimo giorno “La trattativa Stato-Mafia con Marco Travaglio e Marco Lillo o la Tavola rotonda sull’Africa con vari autori stranieri, Saggi su Israele con, fra gli altri, Pierluigi Allotti, Alberto Cavaglion, Arturo Marzano e Alessandra Tarquini od anche Anatomia spassosa e crudele del mondo di internet dell’americano di San Francisco (patria di Facebook) Jarret Kobek, che la cosa la conosce fin dalle origini.

Ma le scelte, quando il menù è troppo ricco, possono portare anche alla sola presentazione di due romanzi molto forti e dalle tematiche molto attuali. Quello che ne viene fuori è però molto di più di un semplice convegno od una conferenza sull’argomento del giorno prima.

 

Qui si parla di come far diventare un affare, nel fantomatico paese felice di DF, l’enorme numero di corpi morti di migranti e di come si può usare un incendio in una fabbrica della Lorena francese per raffinati giochi del capitalismo mondiale finanziario.

Giulio Cavalli, giornalista, scrittore, drammaturgo è stato sotto scorta per rivelazioni sulla mafia. Caustico quanto basta per dire quello che pensa sullo schifoso mondo che stiamo vivendo ha creato un romanzo, Carnaio (Ed. Fandango), in cui in assenza di risposte dallo Stato centrale, un paese diventa Stato ed il Sindaco-Presidente decide, secondo le linee di pensiero più squallide ed arriviste di far diventare un affare (business, business..) l’afflusso inaspettato ed abnorme di corpi morti arrivati dal mare sul suo territorio.

Si racconta come si può produrre energia per combustione di tutto quello che fa schifo e con cui non si vuol coabitare, che è poi la soluzione migliore in un processo di disumanizzazione, acquisita sempre più come normale.

Del resto – ha detto Cavalli – nello stesso linguaggio, consumato da tutti, esseri umani di serie b e cadaveri sono la stessa cosa. E la domanda è sempre la stessa: come li possiamo usare? Anche chi si oppone (un certo Giovanni Ventimiglia) non ha un linguaggio diverso, nuovo, per contrapporsi al verbo feroce che si instilla e si installa dappertutto e cederà pian piano come sta succedendo a tutti coloro che ancora hanno radici buone e pensiero. In Carnaio le persone riescono a lasciare tutto fuori, come ormai in un Italia incattivita riusciamo a lasciare tutto fuori dal nostro quartiere, dal nostro condominio, dalla nostra porta.

Ha narrato Cavalli che una sera a Pozzallo riuscì a parlare con un pescatore che gli parlò di un corpo che aveva ritrovato ormai lessato dalla lunga permanenza in mare. E quella parola lesso (termine culinario in voga) lo aveva così colpito per l’impermeabilità che abbiamo ormai acquisito rispetto ai fatti più feroci.  “Mors tua vita mea”. Cavalli ha ricordato anche che il libro è stato scritto un anno e mezzo fa quando il mondo distopico che descriveva non era ancora diventato reale. Quando ancora la parola sovranismo non si era identificata con egoismo.

Alle domante fioccanti di Annalisa Camilli sul suo impegno socio-politico ha risposto che ancora la letteratura più che gli editoriali o le trasmissioni TV può aiutare a capire meglio, perché frutto di lunghi studi sull’argomento trattato.

Quello a cui è più interessato è la disumanizzazione crescente di un Paese dove tutti hanno cominciato a perdonarsi tantissimo senza però perdonare agli altri, che vedono di serie b, per cui a breve toccherà anche ai più deboli, ai più fragili, agli sconfitti subire i più forti, che ne faranno uso ed abuso.

Tutto può rientrare in un disegno più grande di sfruttamento delle risorse umane, anche dei loro corpi, nella rivendicazione superiore del diritto di usare la forza da parte dei più potenti (Parigi docet).

Un romanzo che man mano diventa più truce più violento – ha detto la Camilli – senza più speranza? E la criminalità organizzata di cui l’autore ha sempre parlato? Essendo un potere forte, aspetta solo che aumenti la fragilità dei cittadini, per avere più manodopera, pagata sempre di meno, con un impoverimento sempre più avanzato di beni materiali ed idee – ha concluso Giulio Cavalli – .

C’è un filo invisibile tra le storie letterarie vecchie e nuove, di un paese o di un altro: l’umanità immersa nella Storia Universale. Vite bruciate (Sellerio editore) è ambientato da Dominique Manotti, (insegnante di storia economica all’Università), in una fabbrica elettronica della Lorena appena agli inizi del nuovo millennio. Dominique, pungente signora dalla penna sociale, è stata una militante politica e sindacale, conosce bene i capannoni delle fabbriche e le vetrate panoramiche degli Uffici finanziari. Ed è appunto in questi due ambienti che colloca il suo romanzo noir.

Resta il fatto che fa pendant con “Carnaio”, perché alla fine si chiede anche lei se essere umani di serie B come gli operai di una fabbrica possano avere un qualsiasi legame con gli Dei della finanza. Dove la gestione della finanza non tiene minimamente in considerazione le persone che ne sono colpite.

Al di là della storia della chiusura di una fabbrica per incendio nel momento in cui l’industria pesante sta perdendo terreno nei confronti della finanza e grossi interessi spingono verso il business della guerra, importante è la pietas della scrittrice nei confronti di una pletora di operai dalla scarna quotidianità, fatta di orgogliosa povertà e di nuovi rischi emergenti.

Si prova molta empatia in questo libro per i suoi personaggi, perché – come ha detto la Manotti – è un impegno civile quello di scrivere sul lavoro e sulle vite dei lavoratori, rendendo anche in maniera narrativa l’economa, che non è fatta di formule, ma di corruzioni profonde ed articolate, pilotate dai più spietati manager. Dove girano tanti soldi non c’è solidarietà ma violenza, prevaricazione, delitto e quindi – ha continuato la scrittrice – occorre attraverso un thriller politico-finanziario denunciare il lato criminale dell’Occidente capitalista.

Giancarlo De Cataldo, da scrittore di gialli polizieschi, ha posto la domanda alla Manotti se i poliziotti (ce ne è uno nel romanzo) vengano creati dagli autori secondo schemi personali precostituiti. Qui il discorso è scivolato sui fatti attuali di Parigi, in cui i poliziotti hanno colpito duramente un vero movimento popolare, i gilets gialli.

E la francese Manotti si è dimostrata molto bene informata sulla situazione estremamente complicata in cui versano i poliziotti in Francia. Frutto di disposizioni sbagliate dei Governi, in estrema difficoltà per essere spesso manipolati dall’alto e con poca organizzazione i poliziotti francesi soffrono di infelicità e di depressione.

Molti sono costretti a dimettersi ed alta è la percentuale di suicidi, pagando in prima persona una situazione di ingiustizia sociale, in cui i ricchi hanno trovato tutte le scappatoie giuridiche e non (evasione, capitali all’estero, ecc.), i più poveri pagano le tasse mentre i servici diminuiscono (scuola, sanità, ecc.) e la società civile si sta sgretolando.

La conclusione è stata: lunga vita al noir politico-sociale perché nella sua finzione rinnovata (pur fatta di omicidi, sesso, sentimenti e violenza) scopre realtà che nessun giornalismo di moltissimi paesi riesce a rivelare così bene.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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