I loti di Leopardi

immagine per Giacomo Leopardi

Ho pensato a Giacomo Leopardi entrando in casa dei conti Leopardi una domenica a Recanati.
Ça va sans dire.  Tuttavia in quel momento ho sentito risuonare in me le sue parole, provando quel “languore” che egli definiva come un abbandono del corpo, una distanza dall’io.

Un vedersi dall’alto, distratti da sé, posti in un intervallo: condizione simile a uno svuotamento dall’egoismo, a un sonnambulismo dell’anima.

Ho avvertito questa emozione, oltre lo scalone, dinanzi alla muraglia di testi secolari e assedianti, collocati in ordine austero. Una biblioteca posta in formazione come un battaglione di ventimila testi schierati in parata. In quel momento ho avvertito la “languidezza” simile a una deposizione senza paura, a un’amicizia senza la distanza guerriera.

 

Giacomo Leopardi, nella lettura di quei testi, rivolse a sé le mille interrogazioni che gli provenivano da altri. In quelle sale lasciò che la propria vita scivolasse attraverso quella degli amati autori.

Le sue letture divennero finestre sul mondo, malgrado Monaldo avesse “murato” quella “finestra” fin da subito. Eppure Leopardi coglieva quelle “voci” come un supplemento di vita, costruendo insieme ai suoi autori un’esistenza che potesse andare di là di Recanati.

Le sue letture divennero materia viva, simile a una selva di contraddizioni e di interrogazioni su ciò che si è, su ciò che si vuole. A proposito della sua coraggiosa erranza in territori estranei, dirà: bisogna “accrescere la nostra città di nuove cittadinanze”.

Comunicazioni, a dir poco, da sorvegliato, da prigioniero, al quale non è concesso altro scampo se non l’utilizzo dei beni paterni: i libri.

Segretamente, attraverso essi, provò a riorganizzare la sua vita, diversamente da quella che il padre avrebbe per lui desiderato.

Osò, in questo modo, superare la finitezza di quelle stanze, ben sapendo che la biblioteca, nel proteggerlo dalla modernità, ne avrebbe alimentato la solitudine e la separatezza.

La scrittura divenne così il grimaldello per evadere, la stanza segreta dove curare il suo pensiero segreto: Una stanza tutta per sé.

Il ragazzo, che ci fa da guida, alto stempiato e con gli occhiali di osso nero ci parla, con un lessico elegante, della casa e della biblioteca Leopardi. La prima in Europa, dice, voluta ostinatamente da Monaldo, il quale in soli quindici anni acquistò più di dodicimila volumi, dei quali Giacomo ne avrebbe letti ben ottomila.

Superata l’ampia finestra che guarda la piazza con la chiesetta, le scuderie e la casa di Silvia (Teresa Fattorini), nella penultima sala, confuso fra altro mobilio, un tavolino disadorno si distingueva per la sua inapparente essenzialità: lo scrittoio di Giacomo Leopardi.  La “languidezza” si ripresentò: ero dinanzi al piccolo altare di un grande tempio, al tavolino di potenza formidabile. Sfiorai la sua superficie con le dita come a trattenere qualcosa che sfuggiva, imprendibile per sua natura.

Su quel legno Giacomo Leopardi compose, in anni intensi a partire dal 1817, gran parte de Lo Zibaldone dei miei pensieri.

Quel fragile groviglio di antiche radici, quel corpo vivente, quell’ingranaggio di riflessioni sulla natura, la felicità, la memoria, la finitudine nacque su questo piano sfiorato appena: “(Mio padre) non ha altro a cuore di tutto ciò che mi appartiene, fuorché lasciarmi vivere in quella stanza dov’io traggo tutta quanta la giornata, il mese, l’anno, contando i tocchi dell’oriuolo”.

Lo Zibaldone divenne così la trasposizione in scrittura della sua famiglia per superare il proprio conflitto. Una scrittura privata per uscire dalla privatezza, un laboratorio, uno strumento per pensare, una riserva di metafore, un deposito magmatico, un’officina sacra.

Leopardi si racconta nei dettagli, interrogandosi sul senso dell’abitare e sulla verità dell’esistenza.

Fu così che si persuase della necessità di uscire da sé per realizzare una sorta di duplicità testimoniale, offrendo all’Altro l’opportunità di pensarsi in maniera rigorosa e non seduttiva, tema a lui caro, come quello del “giovane nel mondo”, giacché la sua in fondo era una raffinata forma di prigionia paterna.

Provò così a introdurre delle finestre in questa “monadicità”, tuttavia non riuscì pienamente a conoscere l’Altro. La coppia Leopardi- Ranieri ricorda difatti quella più antica Leopardi – Monaldo: una coppia rivisitata, soltanto un po’ più evoluta.

Non riusciva a distaccarsi dal suo baule-valigia nel quale aveva custodito i suoi scritti. Quando dopo anni gli capitò di viaggiare lo fece in compagnia di quella gonfia valigia. Si trasferiva insieme al suo pensiero scritto sulla carta, come se fosse una protesi, un vademecum, necessario per attestare la sua presenza in un luogo, per abitarlo.

Antonio Ranieri, inviso a gran parte della critica, mostrò, a dir poco, un bizzarro rapporto con i manoscritti dell’amico. Alla sua morte li tenne in “caldo”, li custodì come delle spoglie manifestando una gelosia esasperante per quelle carte segrete e da lui secretate.

Cospargeva fiori, da buon necrofilo, su quelle pagine come se fossero delle spoglie scritturali, i resti di un ragionamento elaborato. Alla sua morte si rischiò che andassero perdute allorché una domestica pensò di alloggiarle fra le sue bagatelle.

Furono per fortuna recuperate e oggi conservate nella Biblioteca Nazionale di Napoli.

La giovane guida ci precede verso l’uscita, io da un po’ ho smesso di ascoltarla, penso alla modernità e all’attualità di Leopardi, a quanto profonda e sublime fosse la sua filosofia e quanto desiderio di felicità e coscienza della finitudine trattenesse nel cuore.

In strada rivolgo uno sguardo definitivo al palazzo e oltre le alte mura del giardino noto affacciarsi i rami di un albero di loto con i suoi frutti colore arancio scuro.

I loti di Leopardi, mi dico.  La pianta non sembra avere altro desiderio se non oltrepassare il muro di cinta e volgersi alla strada per respirare la sua aria, sebbene umida e nebbiosa.

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Scrittore e psicologo, ha pubblicato per Guida, “La trilogia dei capperi “ (2005) e Passodincanto (2008). Dirige la collana “Solare” dell’ A.S.M.V. è ideatore e direttore del Festival dell’Erranza.​

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