La lingua del dolore. Jana Karšaiová e le parole per ricostruire la propria storia

Il recente romanzo della scrittrice slovacca Jana Karšaiová è un cammino pervaso di dolore e d’implicazioni. Divorzio di velluto (Feltrinelli) è una storia di famiglia, di separazione e di perdita eppure di ricomposizione e infine di approdo a una nuova lingua.

Nel romanzo, complesso nella sua apparente semplicità, l’autrice narra con stile asciutto il ritorno di Katarina, la protagonista, da Praga a Bratislava per trascorrere il Natale a casa dei genitori.

Ritrova così la neve del suo quartiere, incontra le vecchie amiche, fra le quali Viera che ha lasciato il suo paese per l’Italia, la madre e il padre con le loro incomprensioni e distanze.

Si aggiunga a ciò la difficoltà di dover giustificare l’assenza del marito dal quale è separata.

Le pagine del romanzo ripercorrono poi le tappe sofferte del matrimonio con Eugen attraverso frequenti retrospezioni. L’abbandono della madre e del marito evoca in lei un sentimento di sradicamento e la narrazione si snoda pertanto attorno a un nucleo di dolore del quale è difficile parlare.

La madre è mineralizzata nella sua critica incrollabile al pari della sorella Dora che abbandona tutti trasferendosi oltreoceano. Il fratello vive poi un universo parallelo, tale è la sua distanza affettiva. Il quadro familiare per Katarina è a dir poco simile a un Altrove.

Le lacerazioni personali rimandano inevitabilmente a quelle politiche vissute dal suo paese e la protagonista si chiede se sarà capace di affrontare un “divorzio di velluto”, indolore solo nell’apparenza, simile a quello che ha originato gli stati della Slovacchia e della Repubblica Ceca.

Ogni separazione inevitabilmente porterà con sé i lembi slabbrati dello strappo.

Katarina nasce nel 1978 in pieno regime comunista, i genitori, pregni di quel clima di oppressione e privazione, hanno “ appreso” a non tradire alcuna emozione. Obbligati a “vivere nella menzogna” hanno finito per accettarla come abito.

Il titolo del libro, per l’appunto, allude alla rivoluzione del 1989, definita dagli Slovacchi “rivoluzione gentile” e dai Cechi “rivoluzione di velluto”. Le sofferenze della separazione, affrontate su più registri, diventano corpo straziato e trasformato nella ricerca di una nuova identità.

Nelle pagine del romanzo echeggia pertanto l’estremo interrogativo identitario: appartenere realmente a Bratislava o a Praga o piuttosto a un terzo paese come l’Italia.

Katarina, dopo aver reciso i legami con il ricco e “sofisticato marito” e sospeso le relazioni con la famiglia d’origine, è colta da un persistente senso di fallimento che intende in ogni modo superare e giungere a un nuovo punto di osservazione.

Lo strappo ne sottende un secondo, riguardante questa volta la scrittrice: sarà capace Karšaiová  di “ divorziare “ anche dalla propria lingua materna e sceglierne un’altra?

L’operazione riesce e l’autrice scrive il suo primo romanzo in lingua italiana.

Dopo anni di “combattimenti” e di studio travagliato adotta la nuova lingua e l’italiano le offrirà l’opportunità di pensare in modo diverso e approdare a una visione nuova, a un deciso distacco.

 

“Lo slovacco – dirà – mi veste stretto, le parole italiane dentro di me consentono di mostrarmi, sono prese in prestito”.

Nella sua ricerca linguistica incontra, non a caso, la scrittrice ungherese Agota Kristof.

Le “capita fra le mani” il suo volume Trilogia della città di K., è immediatamente conquistata dalla scrittura ”crudele” di un’autrice che ancor prima di lei aveva abbandonato la sua lingua madre per adottare quella francese.

Cresciuta in un’Ungheria povera e separata, Kristof lascerà nel 1956 il suo paese in seguito all’invasione sovietica per rifugiarsi in Svizzera. Soffrirà la perdita dei fratelli, dei genitori e della casa occupata ormai da stranieri: gettata “in un altro mondo” avvertirà la propria lingua come un ostacolo ingombrante.

In Lanalfabeta, racconto autobiografico, Kristof dichiarerà che “all’inizio non c’era che una sola lingua, gli oggetti, le cose, i sentimenti…i sogni, i libri erano quella lingua”.  Non immaginava che potesse esisterne un’altra. Scriverà quindi in una lingua “nemica” che “uccideva”, parola dopo parola, la sua lingua madre.

Nondimeno la conoscenza del francese le consentirà di denunciare la condizione di profuga e il dramma dell’estraneità, offrendole, se non uno strumento di salvezza, almeno un’opportunità di riscatto.

Jana Karšaiová

Anche Jana Karšaiová  ha ingaggiato, a suo modo, una lotta fra lo slovacco e l’italiano, sebbene la sua scelta, sia stata favorita da un graduale innamoramento dell’italiano.

La lingua invero “è appartenenza”, dopo un primo smarrimento si può aderire ad essa ed esprimere l’inevitabile realtà del sé, trasformato dall’emigrazione.

Chi apprende un’altra lingua assume il modo di pensare “dell’altro parlante”: Karšaiová dirà, infatti, che ha modificato, attraverso la sua scelta linguistica, schemi mentali appresi in Slovacchia durante la Repubblica socialista.

Adottare una lingua, in gran sintesi, offre l’opportunità di ricostituire la propria storia.

Lo sradicamento e il tradimento narrati in Divorzio di velluto ci riconducono fatalmente al perturbante spaesamento della guerra in Ucraina, a chi ha perduto vita, casa e affetti e ai tre milioni di profughi che percorrono in queste ore il crocevia del male e della speranza.

Con quale lingua si nominerà questo evitabile dolore ?

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Scrittore e psicologo, ha pubblicato per Guida, “La trilogia dei capperi “ (2005) e Passodincanto (2008). Dirige la collana “Solare” dell’ A.S.M.V. è ideatore e direttore del Festival dell’Erranza.​

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