Si avverte in questo tempo un bisogno sottile di stringere a sé, in forma fisica o metaforica, la corteccia degli alberi e la loro natura negata e maltrattata.
Giorgio Vacchiano, docente dell’Università di Milano, ne è persuaso. Nel libro La resilienza del bosco (Mondadori) sostiene che accarezzare il tronco di un albero, la sua armatura protettiva e immaginare la presenza dei suoi milioni di vasi che consentono lo scambio di sostanze nutritive, induca meraviglia e benessere fisico, divenendo un’esperienza impareggiabile.
La nostra specie è nata sugli alberi e ad essi è legata da un rapporto ancestrale. Vacchiano ricorda come gli alberi siano immanenti, radicati nel presente e quanto sia ignota la loro morte; nondimeno essi insegnano a guardare in modo diverso al tempo, a resistere e conservare la memoria.
All’opinione di Vacchiano fa eco quella di Jón Kalman Stefánsson. Il noto scrittore islandese mostra, infatti, di apprezzare l’idea di abbracciare un albero, gesto che consentirebbe di avvicinare a sé non solo un essere vivente ma una parte vitale della natura.
Nell’accarezzare il suo tronco si sfiorerebbero al tempo stesso le radici, quindi le profondità della terra. È come cingere il mondo intero e ascoltare la sua voce.
Chi nutre un trasporto autentico verso la natura non ignora di certo che gli alberi possiedono, prima di ogni cosa, un potere trasformativo e restituiscono ciò di cui si ha bisogno, alleviando le nostre ansie e ritrovando amici silenziosi.
Di ciò è convinto anche Tiziano Fratus, che nel recente libro Sutra degli alberi (Piano B Edizioni) racconta di sé e della scelta di meditare seduto dinanzi ad essi, pratica del resto attuata nelle comunità umane da migliaia di anni.
Fratus dice di aver “mollato” la presa sul mondo a favore di una “ disarmante contemplazione” che sa ridurre le distanze: si accomoda, incrociando le gambe, al lato di alberi secolari, disponendosi a un lento abbandono. Afferma di aver voluto “coltivare la distanza”, senza affidarsi ad alcuna protezione esterna, scegliendo invece d’essere “rifugio di se stesso”.
Il testo di Fratus, a metà fra saggio e scrittura di sé, mette radici in più luoghi, è il caso di dire, stabilendo inevitabili connessioni fra diverse visioni filosofiche, spirituali e poetiche.
Il lavoro è percorso da un interrogativo incessante: cosa definiamo per Madre Terra, qual è l’alfabeto degli alberi e di quale natura è il liquido silenzioso che lo abita?
In attesa di una risposta, visita piante secolari e monumentali, disponendosi verso esse come se fossero parenti stretti, vecchi e saggi amici, presenze silenziose che ascoltano ciò che non può vedere e sentire.
Ha inizio così una profonda e continua meditazione, sorretta da una autentica aspirazione di “mineralità”, o meglio, da un’urgenza di “dosare” l’esistenza lungo il tempo che si ritiene avere, per far ritorno a un’antica lentezza.
In questo modo si accolgono le proprie debolezze e il sentimento che ci informa di “essere pronti a spezzarci”.
Incontra così il buddismo: gli alberi vetusti danno forma alla sua spiritualità e, nel conciliarsi con “ le parole e le cose” di ogni giorno, Fratus scopre che c’è un Budda in ogni albero, in fondo a ogni radice, in ogni filo d’erba e in ogni “pioggia” di foglia.
È indispensabile chiedersi adesso: la natura ha consapevolezza della nostra esistenza, gli alberi di un bosco, ad esempio, si accorgono che passeggiamo loro accanto, che li guardiamo e semmai li tocchiamo? Il frassino e l’ontano, che crescono a pochi passi, sanno di noi?
Una prima risposta, ancorché suggestiva, è offerta dalla poetessa Chandra Candiani nel libro Questo immenso non sapere, conversazione con alberi, animali e il cuore umano (Einaudi).
A lenti passi l’autrice ci introduce nella pratica meditativa, tramite la quale familiarizza con il non sapere. Coloro che ritengono di conoscere, osserva Candiani, vivono soltanto esperienze di seconda mano, senza accedere ad alcuna intimità e vacillando dinanzi al non conosciuto. E’ la meraviglia che sa curare finanche il cuore “più ferito della terra”.
Saranno dunque gli animali e gli alberi i maestri del non sapere, saranno loro a mostrarci come si possa stare al mondo senza l’ossessione di capire. Osservandoli ci si affida a qualcosa che ci sovrasta, illuminando nuove “grammatiche d’amore”.
Ci sono animali che riconoscono immediatamente un “bambino rotto” e gli fanno subito festa, altri che aspettano di essere abbracciati per accogliere le nostre pene e malinconie. Alberi che ascoltano per ore i racconti di “bambini spaccati” e altri che fremono quando si entra con loro in confidenza. Attenti però a montarsi la testa: essi dimostrano medesima disponibilità per ognuno.
Ritorna, sebbene in forma diversa, l’interrogativo precedente: gli alberi ci ascoltano davvero, sono in grado di comunicare?
In Verde brillante (Giunti editore), Stefano Mancuso, scienziato di fama internazionale, documenta come le piante non siano organismi inferiori ma possiedano una loro personalità, riuscendo a scambiarsi informazioni e interagendo con gli animali.
Hanno in più la “capacità di risolvere i problemi” e “mostrarsi brillanti” nella scelta delle soluzioni. Benché siano sprovviste di cervello, le piante rispondono in modo adeguato alle sollecitazioni esterne e, per quanto sembri strano, appaiono “consapevoli” di ciò che sono e di ciò che le circonda.
In assenza di occhi, naso, orecchie possiedono, tuttavia, la vista, l’olfatto, l’udito e persino il gusto e il tatto.
Sono in grado di intercettare la luce e di usarla. Se due piante, ad esempio, vivono l’una accanto all’altra entrano in competizione e, per un’adeguata ricezione della luce, crescono in altezza per superare la rivale.
Sono poi dotate, per quanto riguarda il senso dell’olfatto, di una sensibilità diffusa: è come se fossero provviste di milioni di piccoli nasi, sparsi lungo tutto il corpo. Gli odori prodotti dai vegetali, si pensi al rosmarino e alla liquerizia, equivalgono a precisi messaggi: costituiscono le “parole” delle piante.
Possiedono inoltre un fine palato: le abili radici distinguono quantità infinitesimali di sali minerali nascoste in metri cubi di terra.
La pianta si accorge di essere toccata? Stefano Mancuso aggiunge che nel mondo vegetale il senso del tatto si serve di piccoli organi, definiti “ canali meccano-sensibili”, in grado di attivarsi quando la pianta tocca qualcosa, oppure è raggiunta da vibrazioni. Si pensi al comportamento della Mimosa pudica che ritrae le foglie nell’essere sfiorata, come se provasse vergogna. Attenzione, non è un riflesso condizionato, la foglia non si chiude se è semplicemente bagnata o scossa: si tratta, pertanto, di un suo specifico comportamento.
Eccoci infine al più controverso fra i sensi dei vegetali: l’udito.
Se noi utilizziamo l’aria come vettore, le piante, mancanti di orecchie, si servono, per la trasmissione dei suoni, del vettore terra. Alla pari dei vermi e dei serpenti percepiscono le vibrazioni del suolo.
In attesa di conferme dalla ricerca biologica vegetale, rimane ineludibile battere il paradigma individualista e disporsi benevolmente nei riguardi della natura.
L’attuale cultura decadente sembra orientata verso la manipolazione della vita, favorendo sempre più tendenze antigenerative, quali la separazione, l’astrazione, il consumo e la frammentazione.
Per questo motivo è necessario promuovere un dinamismo vitale riguardo alla Madre Terra, che possa tradursi in un movimento di cura, un modo appassionato di coinvolgersi nel mondo, uno stare dentro la vita, senza manipolarla e controllarla.
Sarà la conoscenza e la ricomposizione di ciò che è stato frammentato dalla modernità a rigenerare le trame delle infinite differenze, che fanno dell’essere vivente un’occasione di meraviglia al pari dell’inoltrarsi nei boschi e ascoltare strani suoni e magiche voci della vita dei vegetali.
Scrittore e psicologo, ha pubblicato per Guida, “La trilogia dei capperi “ (2005) e Passodincanto (2008). Dirige la collana “Solare” dell’ A.S.M.V. è ideatore e direttore del Festival dell’Erranza.
Interessante e coinvolgente.
Mi sono permesso di condividere su facebook la tua meravigliosa riflessione
Molto interessante e coinvolgente, già rispettavo la natura, ma da ora in poi mi avvicinerò alle piante con un approccio totalmente diverso.
Io vedo la natura in senso inverso e provo a spiegartelo in modo comprensibile : gli alberi aprono e distendonole braccia al cielo perché abbracciano e accolgono il mondo tutto, cioè anche noi e così ci indicano il percorso che nei secoli hanno percorso riconduce dici alle radici alla fonte della loro nostra esistenza ; è un percorso apparentemente retrogrado perché centripetro. La Natura non è ostile e tantomeno offesa, ci accoglie ma nella meditazione e nel pensiero che il cosmo ci porta alle radici lunghe, contorte, ma pur sempre sulla fonte Unica e Sola. Per comprenderla è facile, basta mettersi a testa in giù. Giacomo russo
grazie Roberto
Orizzonti silenti
Cantano le parole
S’aprono le onde
Emozioni sonore
Ascoltano la voce
Della viva poetica
Terra in fiore
Dell’autore
Profondo, lucido e toccante
Roberto Perotti
Grazie
Piergiuseppe