Web e solitudine. Alla ricerca di uno spazio per le parole nell’era dell’obesità mediale.

Franz Kafka avrebbe scritto in otto ore di lavoro ininterrotto La Condanna se avesse avuto un computer connesso in rete? Avrebbe raggiunto la sua completa concentrazione al punto da dimenticare, come dichiarò, le sue esigenze corporali? Sebbene l’universo digitale offra strumenti stupefacenti, il povero Kafka contro quanti altri demoni avrebbe dovuto lottare per non distrarsi?

Tim Wu, della Columbia Law School, in un suo articolo, immaginava alcune menti del passato alle prese con le distrazioni del digitale.

Riflettendo sull’abuso di comunicazione legato al web, ho ripreso tre libri letti di recente. Il primo di un sociologo, il secondo di una scrittrice, l’ultimo di una psicoanalista.

Marco Gui insegna sociologia all’Università di Milano- Bicocca e ha pubblicato un saggio ricco di dati e suggestioni, iniziando dal suo titolo, A dieta di media, (Il Mulino).

La comunicazione e il cibo in realtà hanno molto in comune, sono divenuti prodotti fruibili e sovrabbondanti.
È possibile così stabilire un’analogia tra l’alimentazione e la comunicazione, considerando la conseguente obesità mediale alla stregua di quella fisica.  A ben vedere il confronto regge: l’eccessiva quantità di cibo e la valanga dei contenuti dei media travolgono allo stesso modo le limitate capacità individuali.

Sono i gruppi sociali meno avvantaggiati sul piano culturale ed economico a cedere: i cibi meno sani, in realtà, sono quelli a basso costo e di facile preparazione.

La disponibilità immediata di prodotti pronti al consumo riduce, di fatto, i costi ma aumenta di molto il consumo d’impulso. Si pensi alla moltiplicazione dei canali televisivi, all’espansione dei social, all’onnipresenza del web che inducono a una sorta di obesità mediale, a un’indigestione compulsiva e anancastica.

Karl Popper, tempo fa, definì “spezie mediali” i contenuti televisivi riguardanti risse, sesso esplicito e sciagure. Queste spezie avrebbero attirato, sulle prime, l’attenzione del telespettatore per lasciarlo poi insoddisfatto.

Oggi internet non può ritenersi, diversamente dalla prima fase, un indicatore d’inclusione sociale: la quantità delle ore trascorse in connessione sottende, infatti, un suo sovraconsumo, cioè una povertà di stimoli alternativi e una scarsa inclusione sociale.
Bisognerebbe preferire una dieta di qualità che escluda i cibi grassi, dolci e salati e in particolare le “spezie” segnalate da Popper.
Si ritorna così a Kafka, alle sue otto ore di fila per La condanna, e alla distrazione, tema centrale nell’epoca dei media.

Il secondo libro, La passione ribelle (Laterza), della scrittrice Paola Mastrocola consente di trattenerci ancora un po’ sull’argomento.

Nelle sue pagine si tratta di scuola e di “studio che sa di muffa”, con stile ironico e perentorio, proprio dell’autrice, insegnante di lettere per anni in un liceo.
Nell’epoca del web il termine “scuola” non è connesso al termine “studio” e chi si applica a quest’attività viene considerato di certo uno sfigato.  Ecco un primo quadro.
La pratica dello studio rappresenta poi un vizio innominabile, una faccenda personale, segreta e tutto sommato sospetta.

Mastrocola parla di sé, della sua esperienza di docente e di autrice; per scrivere scappava alla Biblioteca Nazionale e vi si nascondeva come in una tana solitaria, si sentiva protetta in quel luogo, imprendibile: bisogna raggiungere questo stato per scrivere.

Oggi si decreta invece la “sparizione dello studio”, i poeti, che scrivono al computer, cancellano e riscrivono all’istante: che fine hanno fatto le variazioni cervellotiche che un autore infliggeva per mesi al testo?

Studio breve, quindi laurea breve, e gli insegnanti che non studiano più, senza contare gli inquilini dei Palazzi del Potere dove lo studio da tempo non vi abita.

Se non ti esibisci non esisti” si ripete nelle pagine, espressione che sbuca come un mantra inquietante.

Quale destino avranno le sacre biblioteche, cosa accadrà a quei testi che da secoli vengono salvati dalla corruzione del tempo? Oggi si studia su manuali smilzi, non si frequentano libri nascosti, ci si ferma ai sunti e alla navigazione on line.
I libri sono come relitti e a furia di offrire la memoria e la conoscenza a oggetti tecnologici si finisce per smarrire ogni funzione intellettiva.  C’è internet, del resto, è sufficiente un clic e il “pasto” è pronto, fast food della conoscenza digitale, facile e immediata.

Per Mastrocola, invece, è necessario indugiare in un luogo appartato, scollegati, soli per ore.
L’indugio consente l’attenzione e il possedere le parole in un abbraccio. L’esser scollegati (dalla rete) rinvia alla possibilità di essere soli con se stessi, di raggiungere un silenzio interno che spazza via gli altri pensieri e ci dispone all’ascolto delle parole altrui e del nostro mondo interiore.

Qui si apre il terzo libro, quello di Catherine Millot, psicoanalista e scrittrice, allieva di Jacques Lacan. Il suo ultimo lavoro pubblicato in Italia ha come titolo, per l’appunto, O solitude (ed. Praxis), in cui si narra di viaggi, frequentazioni, amori infelici e soprattutto del dono e della tristezza della solitudine: un viaggio straordinario che concede la felice impazienza degli inizi.

Una solitudine goduta nella libertà fin dall’infanzia, divenuta vitale e impegnata nella passione dominante della lettura. Leggere è una vita in più, per coloro a cui la vita non basta.

La lettura diviene un incontro amoroso, senza sradicamento, una coesistenza felice di legami multipli. Eppure il compimento dell’amore è la scrittura. Per Millot scrivere è come impegnarsi in un legame che durerà anni, è darsi a un’ascesi con riti, regole e disciplina, guardandosi, ovviamente, dagli eccessi, come sanno bene gli asceti e l’amico e maestro dell’analista Roland Barthes, riconosciuto teorico della vita solitaria.

Sul tema della solitudine esistono numerose variazioni, Millot segnala il piacere di restare nella propria stanza a letto per ore come per apparentarsi alla posizione del ragno al centro della sua tela.
Il letto rappresenta il luogo a partire dal quale si dispiega la relazione con il mondo, centro di vibrazioni e di creatività.

L’autrice, come Pascal, Cartesio e Proust, scrive a letto con le gambe sui cuscini, sente così la solitudine nell’immobilità e il potere di schiudere il suo essere.

Il silenzio e la solitudine che avvolgono la sua scrittura sono condizioni imprescindibili: il gusto stesso dell’infanzia, quando si cercano le parole che mancano, e si è presi da pensieri sconosciuti che non devono niente a nessuno.

Il pensatore aspira a essere lasciato tranquillo con i suoi pensieri, e per dirla con Kant, anela a una “ solitudine circondata”, in cui l’Altro è presente ma non chiede niente.

Sarà possibile questo in una condizione di obesità mediale?

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Scrittore e psicologo, ha pubblicato per Guida, “La trilogia dei capperi “ (2005) e Passodincanto (2008). Dirige la collana “Solare” dell’ A.S.M.V. è ideatore e direttore del Festival dell’Erranza.​

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