Una lingua inaudita

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Si susseguono in questi giorni inviti a partecipare a maratone letterarie e a reading di poesie.  Fioccano consigli di lettura e si moltiplicano richieste d’iscrizione a concorsi letterari.

L’intenzione è raccogliere le impressioni sul dramma che ci attraversa, la richiesta è cosi insistente da suscitare una riflessione.
Di cosa si dovrebbe per l’esattezza parlare, scrivere o leggere?

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È indubitabile che una profonda crisi antropologica ci chieda da anni di ridisegnare i tratti della nostra stessa umanità.  Viviamo un travaglio senza precedenti e il mondo sembra capovolgersi ogni giorno di più: ci accorgiamo del suo disastro attraverso la visione degli spazi allagati della nostra esistenza.

In questa liquidazione di riferimenti estetici, morali e antropologici appare indispensabile chiedersi quale spazio di senso possa ricoprire la lettura e la scrittura e soprattutto interrogarsi su quale forma di lettura e di scrittura.

Penso sia indispensabile, in questa fase storica del mondo occidentale, nella quale assistiamo alla paralisi dello spirito e al deperimento delle misure economiche, ricorrere a quei  presupposti poetici e spirituali e a quelle energie linguistiche, che sappiano nutrire la mente,  attraverso  parole incendiarie.

In questo tempo inquinato dal rumore del dolore è necessario, prima di ogni cosa, fermarsi in un proprio luogo interno e coltivare il silenzio, per sostenere  una creativa condivisione fra silenzio e parola.

Ristabilire il silenzio promuoverà un nutrimento di senso, una riaffermazione della parola.

Di per sé quest’ultima, tanto maltrattata e abusata, non potrà rappresentare un antidoto all’angoscia e al travaglio di questi giorni, si ha bisogno piuttosto di una forma linguistica che sappia produrre un fondo inesauribile di senso e stabilire uno scarto, un di più.

Occorre una parola che non si riduca a presidio anti sintomatico o prodotto culinario, ma che mostri i segni di ciò che è accaduto e sta accadendo, fedele alla sua stessa “verità”, alla storia in essa sedimentata. La parola non ha altra scelta se non ri-formarsi in seguito a questa catastrofe planetaria.

C’è dell’altro in questi giorni ed è rappresentato dal nostro impegno a mantenerci in vita.  Esso dovrebbe compiersi attraverso la privazione della nostra stessa libertà, degli affetti e dei contatti sociali.

Riceviamo protezione dalla mancanza, dall’assenza, dalla sottrazione e dalla sospensione dei rapporti diretti con l’Altro.

C’è da chiedersi se tanta disincarnata deprivazione possa in futuro conferire al toccare, dunque all’abbraccio, il suo senso primigenio.

È auspicabile che un procedimento che si muova su un’analoga direttrice possa riguardare anche la parola e la scrittura.

Chissà se il disastro che viviamo avrà il potere di mondare la banalità e l’insignificanza discorsiva in modo che il grumo della nostra sofferenza si riveli in una lingua che abbia la forza di nominarlo.

Sento ripetere in queste ore che nulla è come prima e che sperimentiamo di continuo il confronto con la morte.

Una riflessione anche su questo.

È connaturato al vivere il prendere congedo: l’esistenza umana è un incessante accomiatarsi da ciò che è e da ciò che è stato. Tuttavia, in alcuni casi, possiamo precedere questa separazione e osservarla come se fosse dietro di noi, avendo accesso per questa via al nostro essere profondo.

Il poeta sa che per scrivere un solo verso bisogna aver dato fondo alla propria vita nella ricerca dell’arte.

La scrittura invero non può che essere un processo di trasformazione: nell’uscire da noi segna il cammino della nostra vita.

Kafka non a caso sentenzia che si può scrivere solo avendo il dominio di sé davanti alla morte, e solo dopo aver stabilito con essa un rapporto di sovranità.  Diversamente sarà la morte a sottrarre le parole alla penna.

L’arte è quindi relazione con la morte e, ancor prima, padronanza su di essa in modo che la negatività estrema possa trasformarsi in possibilità e lavoro creativo.

I ripetuti inviti a scrivere sulla drammaticità di queste ore mi riportano per necessità a Theodor W. Adorno e alla sua dichiarazione secondo cui “ scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”.

Il filosofo chiarisce poi che scrivere poesie è possibile, oltreché necessario, a condizione  che queste abbiano coscienza  dell’accaduto e sappiano manifestare l’orrore e la sofferenza delle vittime della storia.

La poesia, o altra forma d’arte, non deve assolutamente trasformarsi in un prodotto della grande industria culturale, cuore della società che aveva permesso l’esistenza stessa dei campi di sterminio.

L’arte ha il compito dunque di farsi portavoce di ciò che è stato escluso, ferito, eliminato dal nostro mondo.

L’orrore non può sottostare a nessun linguaggio dichiarativo, perché il dolore non si può dire, può solo emergere attraverso una qualche forma artistica.

All’indomani della tragedia che ci coglie, è quindi indispensabile dare un senso nuovo alle parole, liberandole dalla crescente usura e dalla frequente mistificazione.

La pensa così anche Marco Guzzi, nel suo Dizionario della lingua inaudita.

Bisogna per necessità riformulare il significato delle parole, affinché quest’atto rappresenti una rivoluzione culturale, spirituale e politica, unica possibilità data alla nostra umanità straziata.

Una lingua inaudita.

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Scrittore e psicologo, ha pubblicato per Guida, “La trilogia dei capperi “ (2005) e Passodincanto (2008). Dirige la collana “Solare” dell’ A.S.M.V. è ideatore e direttore del Festival dell’Erranza.​

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