L’interdetto sulla toccabilità

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Foto di Antonio Presutti

La pandemia, con il suo portato di morte e d’incomprensibilità, ha fagocitato, nella sua durata, il significato di parole quali distanziamento, interruzione e disgiunzione.
Al punto che il distacco dall’Altro e l’interdetto sulla sua toccabilità sono divenuti condotte usuali, dissonanti rispetto all’incessante movimento del nostro sviluppo.
La norma ha mostrato così il suo volto involutivo e regressivo.

Il toccare e l’essere toccati, l’accarezzarsi e lo sfiorarsi e poi l’abbracciarsi sono gesti che richiedono l’uso delle nostre mani.
Queste purtroppo sono ostacolate a stringere altre mani, ferite anch’esse dalla medesima interdizione.

È inevitabile quindi che tale argomento susciti un interrogativo a dir poco vitale, ovvero se l’uomo sia solo un animale specifico oppure un essere speciale.  Di sicuro l’articolata attività della mano, che ci differenzia senz’altro dagli altri animali, è più articolata di quanto non siamo disposti a ritenere.
La mano afferra, prende, regge e, per di più, porge.
È pronta a ricevere le cose e a offrire se stessa. E poi si contrae, si dispone, accoglie se stessa nell’altra mano.

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Foto di Antonio Presutti

 

Jacques Derrida, ricorrendo alla sua sintassi seducente, afferma che il darsi della mano implica un mostrarsi, un prestare attenzione, un porgere l’orecchio. Verso cosa, ci si chiederà. Verso il mondo, immancabilmente.

Per questa via, la mano permette all’individuo di entrare in relazione con le cose dell’universo. Orienta, organizza i rimandi, le opzioni, in sintesi, ordina gli eventi.

Ciò è reso possibile poiché la mano, nell’atto di donare mostra ciò che ha ricevuto e, nello stesso tempo, porge e riceve anche se stessa.
Un lavorio mirabile, compimento di una vera e propria opera d’arte, che sancirà l’appartenenza fra la mano e la parola, evocando la forza del dono, il fascino del linguaggio, il mistero del pensiero.
All’indomani dell’interdetto ci s’interroga se questo “universo” sia davvero minacciato, esigendo l’opportunità del tocco, la promessa della stretta e il potere esplosivo delle mani.

Si rimane estasiati dalla magia delle proprie e delle altrui mani, del loro librarsi nell’aria, del loro chiudersi come una conchiglia.
Mani nervose, decise, seduttive, erotiche, taglienti.
Una rete fitta d’innervazioni, arricchita da una muscolatura elaborata, simile a quella delle nostre labbra.

Non è un caso che le mani sappiano parlare.
Lo sanno bene i muti che manipolano l’indicibile attraverso il loro sottile segnare.
Ogni tratto, seppur breve, del cammino che conduce al luogo d’incontro fra la parola e il pensiero è segnato da un incessante lavorio delle mani, impegnate nel loro rendere dicibile l’indicibile.

Un percorso misterioso che spaventava Fernando Pessoa, il quale nel fissare le proprie mani ne riconosceva i movimenti, temendole più di ogni altra cosa. Sarebbero state loro le responsabili, le messaggere di un linguaggio decifrabile solo in seguito.
A noi prescrivono invece di tenerle in tasca, dimenticarle per un po’ e, in loro vece, utilizzare il gomito, l’angolo più cieco del nostro corpo.
Altro che arabesco di dita affusolate poste in segno di preghiera o benedizione, altro che accenno di sfioramento o di carezza (a trattenere qualcosa per sua natura fuggevole), alle nostre mani è stata sottratta ogni designazione di promessa e di desiderio.

Eppure esse continuano a metaforizzare, a plasmare la materia, a fingere la realtà.
Pessoa a riguardo ha idee chiare: “Il poeta è un fingitore …che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente.”.
Mani che tessono, che filano, che tramano, che annodano persino l’Altrove.

Organi esterni della ragione, che conoscono il modo di tracciare, di disegnare, di congiungere, di svelare persino la verità: i segni tragici di Gesù si sono incarnati dolorosamente nelle mani di Francesco.

Su altro piano, è sufficiente “toccare “ un libro, “ tenerlo in mano” affinché di esso ci giunga qualcosa. Lo leggiamo con le mani, non c’è che dire, lo accarezziamo, lo apriamo, lo sfogliamo, gli diamo un tocco affettuoso sul dorso.

Con un libro in mano non si farà la fila alla porta del Paradiso, dice Virginia Woolf.

Ci ordinano di indossare prima di ogni cosa la maschera, sebbene le nostre mani sappiano diffondere, nel loro profondo respiro, messaggi e germi. Ne era convinto Otto Rank, fra i più brillanti seguaci di Sigmund Freud, il quale gli conferirà l’ambito compito di redigere i verbali degli “incontri psicoanalitici del mercoledì”. Il giovane analista sarà accolto “a braccia aperte” dal padre della psicoanalisi per essere poi allontanato, come avvenne per molti suoi colleghi.

Le mani di Rank, come riportato su L’Anima fa Arte, erano quelle di un analista, intrise di segreti, di sofferenze dei pazienti e di parole non dette.

Mani che sapevano “toccare l’afflizione umana e per questo mai prive di guanti.
Nei Diari lo studioso scriverà che la mano non va stretta ad alcuno, nel caso capitasse, si renderà opportuno l’utilizzo dei guanti. Rank adoperava le mani nel fare analisi, con esse reggeva il pesante fardello del paziente, favorendo la sua nuova nascita.
Le sue erano mani analitiche, con funzione materna ma ancor prima, mani ostetriche.
Il geniale analista si liberò dei suoi guanti solo al termine della sua professione.

E a noi cosa accadrà se l’interdizione del tocco e della carezza dovesse divenire parte della nostra  coscienza e guidarci verso un comportamento tanto mutilato.

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Scrittore e psicologo, ha pubblicato per Guida, “La trilogia dei capperi “ (2005) e Passodincanto (2008). Dirige la collana “Solare” dell’ A.S.M.V. è ideatore e direttore del Festival dell’Erranza.​

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