Nella civiltà dell’immagine così ghiotta di apparenza, quale posto potrà occupare la discrezione? Potrebbe mai divenire una virtù preziosa in una società sorvegliata da videocamere, intercettazioni telefoniche, satelliti, paparazzi e rappresentare una forma necessaria di resistenza verso un mondo che ci vuole sempre connessi, presenti e protagonisti?
Non sarebbe forse il caso di proporre una tregua o di scomparire?
Molti pensatori hanno affrontato il tema in modo personale, colti tutti dal fascino della discrezione. Di recente, Pierre Zaoui, filosofo dell’università di Parigi VII, ha proposto una documentata riflessione sulla gioia silenziosa di osservare da inosservati, sul sollievo di placare l’ansia del mostrarsi, sulla ricerca di un’identità che superi la mera visibilità.
Il tutto in un testo dal titolo emblematico, L’arte di scomparire.
In esso la discrezione viene concepita come l’arte della scomparsa, come atto volontario e scelta di vita.
Scomparire discretamente, dunque, senza nascondere nulla fino a non avere più nulla da mostrare, fino a rendere la propria presenza impercettibile, come in un gioco di alta creatività, un gioco di sottrazione che non vuole affermare se stessi ma aprirsi al mondo senza toccarlo.
La scomparsa, pertanto, non risulta una perdita, semmai una “discreta” sottrazione, che diviene arricchimento per chi osserva senza essere osservato.
A questo punto s’impone la figura di Franz Kafka, modello assoluto di discrezione. Nei suoi diari, segnala che nella lotta tra il sé e il mondo, bisogna assecondare il secondo, altrimenti tutto scomparirà. Accanto a una posizione così disperata, Kafka sostiene che in questa lotta non è grave che il mondo ci spezzi, quanto piuttosto che trionfi un sé egoistico e miserabile.
Per questo è indispensabile secondare il mondo e smetterla di esistere a sue spese.
Va aggiunta qui una nuova sottigliezza kafkiana: assecondare il mondo non significa ritenere che questo smetta di ruotare senza di noi. Kafka affronta così, in uno sguardo unico, il problema dell’esistenza, il tema della modernità e la via verso la discrezione.
Eppure quest’ultima non ha un carattere morale, ovvero non rappresenta né un bene né un male. L’importante è non sentirsi al centro e all’origine del mondo ma prestarvi attenzione e lasciarlo esistere.
La discrezione non è una qualità individuale o un tratto della personalità, è, soprattutto, un’esperienza rara, ambigua e preziosa.
Ma come si può essere discreti in una società dove il mondo dell’impresa, quello dell’arte, la televisione e i social network ci ricordano che esistere è unicamente essere percepiti? Scomparire, in queste condizioni, può procurare l’angoscia di mostrarsi regressivi e perversi, o la sensazione di eclissarsi per sempre.
Il desiderio di ritiro può essere confuso con un atteggiamento rinunciatario, con l’intenzione di voler dissolvere la propria volontà in quella degli altri. Non siamo sicuri infatti se l’esperienza di discrezione possa logorare e mortificare oppure elevare e rigenerare.
Ma lo scomparire è un’arte, una scommessa che può capovolgere la discrezione nel suo contrario e liberarla dall’incantesimo, per restituirla all’innocenza e al manifestarsi fugace e imprevisto.
L’invisibilità non va subita, in quanto è una scelta, non certo una questione di compostezza e meno ancora di carattere psicologico.
È da escludere, pertanto, un’apologia delle “anime discrete”, queste avrebbero bisogno, piuttosto, di un’arte opposta, che insegni a mostrarsi e affermarsi.
In verità la discrezione richiede una nobile dialettica fra l’apparire e la scomparsa, fra il manifestarsi e il celarsi. Ecco perché la miriade di gesti sottili della discrezione rappresenta un’arte e non una scienza.
Motivo per cui, come avverte Pierre Zaoui, i pensatori della scomparsa, da Nietzsche a Baudelaire, da Eckart a Blanchot, si sono espressi sull’argomento attraverso frammenti e aforismi.
A suo dire, si dovrebbe entrare nella discrezione come in una casa di persone che non conosciamo, per vedere come vivono e lasciarsi incantare dalla bellezza neutra delle cose.
Scrittore e psicologo, ha pubblicato per Guida, “La trilogia dei capperi “ (2005) e Passodincanto (2008). Dirige la collana “Solare” dell’ A.S.M.V. è ideatore e direttore del Festival dell’Erranza.
“Ho sempre pensato che il modo migliore per vivere tranquilli fosse di essere trasparenti come il vetro, come un camaleonte su una pietra, passare attraverso i muri, essere senza colore né odore, lo sguardo della gente dovrebbe attraversarvi e vedere chi c’è dall’altra parte, come se voi non ci foste. Cosa ardua essere trasparenti: è una vocazione; un antico, antichissimo sogno essere invisibili. No non sono un eroe! Non voglio essere un eroe!” da Roberto Zucco di Bernard Marie koltés
Come sempre Roberto Perrotti con semplicità e fluidità ci accompagna nelle grandi, universali tematiche dell’essere umano, in relazione al tempo sociale che vive ì, dandoci la possibilità di associazioni pindariche e non e di immagini che ci giungono e stimolano a continuare comporre il puzzle che poi scomparirà ad una folata di vento o ad un colpo maldestro del gomito mentre ci voltiamo a rispondere alla voce che chiama … Possiamo eventualmente pensare che se tutti lavorissimo alla trasparenza e al sogno dell’invisibile, che è più del visibile, potremmo evitare di avere Eroi.