Io sto con le cicale

Clare Bridge over the River Cam in Cambridge, UK

Io sto dalla parte della cicala, che il più bel canto non vende, regala… (Gianni Rodari)

Ad un certo punto, quando le ferie arrivano, vien voglia di dire Io sto con le cicale, perché la colonna sonora del loro canto diviene il sottofondo delle giornate estive. Nelle ore in cui si preannuncia il solleone, molti di noi vorrebbero rifugiarsi nella frescura di un cinema, o in quella sala di visione più raccolta di casa nostra.

Clare Bridge over the River Cam in Cambridge, UK

Purtroppo il concetto di riposo è qualcosa con cui abbiamo poca confidenza e persino le vacanze divengono una corsa frenetica, fino ad essere colti da anatema al solo pronunciare la parola ozio.
A nessuno viene in mente che un tempo fosse celebrato come catalizzatore essenziale della creatività.

E perché non riconoscere il binomio ozio-risate come cura ai molti mali che affliggono la nostra epoca?

Un umorista inglese di nome Jerome Klapka Jerome dedicò all’ozio un intero libro (I pensieri oziosi di un ozioso), anche se rimase noto per un’ altra opera (dedicata ad oziosi vacanzieri), in cui illustrò un viaggio sul Tamigi in compagnia di amici. Fu adattata per la radio, il teatro e il musical, divenendo una pietra miliare dell’umorismo inglese (e non solo). Una comicità che ha continuato a divertire dalla fine del 1800 ai nostri giorni.

In caso non l’avessi ancora letto, fai tesoro di questo racconto estivo in attesa di procurarti il romanzo. Poi spegni il telefono e accomodati sulla tua sdraio di fronte al mare con Tre uomini in barca. E se il tuo vicino di ombrellone ti prendesse per matto, vedendoti ridere da solo, sappi che a perderci è lui e non te.

Ci ritrovammo in cinque: George, William Samuel Harris, Jerome ed io, con un cane che di chiamarsi Montmorency non ne voleva sapere: rispondeva solo al nome di Filippo.

Anche George non era George, si chiamava Francesca: l’avevo incontrata anni prima nella sala d’attesa del tribunale, in attesa dell’udienza per il mio divorzio.

Appariva ben piantata, una donna sui cinquant’anni di età che avresti detto un tipo deciso, quel giorno con un’aria grave. Mi disse di avere appena chiuso una storia di vent’anni con l’uomo che le era stato marito e socio in affari. Non si aspettava niente di buono perché il marito era talmente corrotto che chiunque fosse corrotto nel mondo avrebbe dovuto pagargli le royalties.

In quel mentre venne il mio turno e mi alzai di scatto perché ero stata chiamata dall’avvocato, ma inciampai sui piedi di Francesca e mi ritrovai a un metro da lei, bocconi, con tutti i miei documenti allegramente disposti nella sala d’attesa.

Notai subito che Francesca aveva dei piedi lunghissimi, proprio come il nostro George. Glielo dissi e scoppiammo a ridere. Aveva letto Tre uomini in barca e conosceva i personaggi, così più tardi considerammo come, grazie ad un romanzo, la vita potesse essere vista da un’altra prospettiva.

Come saremmo arrivate ad organizzare un viaggio sul Tamigi, è il sale del racconto.

La stessa idea balenò ovviamente anche a Harris. Bene, non era Harris in carne e ossa, ma quello che sarebbe potuto essere il personaggio cui s’ispirò Jerome se il suo eroe fosse vissuto a Roma e fosse stato madre di due bambini. Luisa, questo era il suo nome, era una donna in carriera che aveva optato per una vita da casalinga all’età di 45 anni. In realtà non avrebbe voluto diventare amministratrice delegata di una grande società (e prima di questo meritare due lauree e un master), dato che la sua unica passione era oziare, possibilmente infilando perline sulle spiagge dei Caraibi e offrendo margaritas ai turisti: Carlito docet, diceva sempre citando un film.

Invece a Filippo, cui sarebbe toccata una lunga quarantena per entrare in Inghilterra, il viaggio non sarebbe garbato. Dopo un rispettoso passato di cane da pagliaio a guardia di polli e conigli, aveva acquisito una consapevolezza da cittadino di cui andava fiero, anche se l’aspetto tradiva la sua sicumera. Era uno di quei cagnetti smilzi, di taglia media, dal manto nero a ciuffi bianchi, con orecchie ad ala di pipistrello.

Quando sopraggiungeva in un parco, i suoi consimili scambiavano lo sventolio di quelle orecchie per una minaccia da cui liberare il mondo canino, risolvendosi ad ingaggiare col malcapitato una tenzone all’ultimo ringhio. In realtà sospetto che la cosa fosse un diversivo piacevole per il nostro, che, con la scusa di difendere il suo onore, coglieva l’occasione per dare una lezione ai cagnetti di città.

Infine c’era Jerome, l’autore della storia originale, una presenza disincarnata più o meno costante nella mia vita. All’età di dieci anni, sul frontespizio di un suo libro, avevo letto una dedica: “A Jo, perché impari a sorridere nelle piccole avversità. Papà“.
A proposito di me non dirò più niente, se non in presenza del già citato avvocato.

Come pensammo di organizzare un viaggio per fiume è presto detto. Eravamo persuase che sarebbe stato un buon modo per conoscere quelle antiche sponde e concludemmo che la prima idea dell’autore era stata la medesima, cioé quella trarne un travelogue (un dialogo di viaggio).

Dato che si tratta di un libro che diverte ad ogni lettura come fosse la prima, feci mio l’insegnamento che nella vita niente è perduto se ci si può fare su una risata sopra. Sarcastica o ironica poco importa, aggiungeva Luisa, se puoi accompagnarci un bicchierino di tequila bum bum.

E ora facciamo un’ipotesi assurda: su questo racconto non avrei niente da dire. Si tratta di una di quelle storie molto personali dove rischi di mettere a nudo come la pensi (faccenda di cui uno scrittore incarica un personaggio insospettabile).

La prima volta che mi capitò di scrivere di fiumi avevo 12 anni e me ne stavo su di un ponticello del Lys, nella Valle di Gressoney, ad assistere alla regata annuale. Io attendevo al varco, pronta a fotografare i partecipanti non appena fossero finiti in acqua.

Mi sembrò ovvio che tutti si appassionassero alle regate in attesa di quel momento. Tra gli spruzzi, gli sgambettamenti, le mani annaspanti e un gran tripudio di flutti e schiuma, quando la canoa si ribaltava i canottieri divenivano grandiosi.

Che tutto quel darsi da fare a pagaiare avesse il solo fine dello sport, non mi persuadeva, lo vedevo più come una comica alla Buster Keaton. Da una parte imprimevano resistenza alle rapide, dall’altra, affannati e fradici, facevano appello a tutta la determinazione di cui erano capaci, mentre lo scafo si incagliava di prua o di lato prima di rovesciarsi.

Bisogna ammettere che i canottieri li educano sin da bambini a non emettere qualsivoglia lamento, fatta eccezione per un mugolio a denti stretti, coperto dallo sciabordio del fiume.

Io mi sbracciavo, gridando un urrà ad ogni inclinazione dei natanti. Per solito i canottieri erano pazienti: rimettevano in sesto l’imbarcazione rivolgendomi appena uno sguardo eloquente (aspetta che ti pigli). Non ho dubbi che in tempi di punizioni corporali mi avrebbero rincorsa per suonarmele.

La voglia di ridere si manifesta o se siete bambini, o se siete in ozio, oppure se siete stressatissimi e senza speranza (in quest’ultimo caso il ridere è un vero salvavita).

Sono le tre situazioni in cui la serietà va a farsi benedire e il comico che è in voi può affiorare. Marty Feldman scrisse che anche la vecchiaia è ottima per farsi tante risate visto che si smette di arrovellarsi e ci si limita a godere dell’esistenza.

È indubbio che i luoghi d’acqua, fiume, mare si prestino a situazioni incredibilmente ilari. Eccezion fatta per i laghi: i laghi hanno fama sinistra e sono più adatti ai racconti horror.

Oltre a mari e fiumi ci saranno anche altri posti, altrettanto buoni per ridere, ma forse non erano buoni quando c’ero io.

La verità è che mi fido molto dei viaggi via acqua, mi sono sempre sembrati più sicuri. Lo so cosa state per dire, che ci sono stati casi di disastrosi naufragi. Ma in confronto ai viaggi per terra o aria, non c’è partita, anche se a volte i presentimenti sono stupefacenti…

Una volta, un amico doveva andare da una certa cittadina ad un’altra e tra le due si stendeva un braccio di oceano. Costui aveva avuto il presentimento che l’aereo si sarebbe guastato.
Così andò per nave. E, pensate un po’, l’aereo cadde sulla nave.

A conti fatti, di questi tempi, tanto varrebbe restarsene a casa.

Come il lettore osserverà, nella comicità tutto cambia e si presenta in forma miracolosa, quasi inebriante. Non dobbiamo preoccuparci del retroscena o dei fatti a latere (anche se un certo umorismo vi indulge).

Quello che non cambia è il sesso dei protagonisti. Delle donne si ride manieristicamente, rispetto ai luoghi comuni; chi invece fa parte della schiera dei divertiti è sempre un uomo. Assume quell’aria come a dire “so ben io perché rido…”, dato che è convinto che le donne non posseggano alcun sense of humor. Come quando varchi l’ingresso di quei club esclusivissimi per gentlemen inglesi e, in quanto donna, ti riaccompagnano all’uscita con tanti saluti.

Inoltre, parlando di femmine, viene meno l’elemento della pigrizia. Da che mondo è mondo una donna pigra è condannata alla gogna: meretrici, streghe e scrittrici ebbero fama di crogiolarsi al sole o in vasca da bagno, meditando le loro trame. Tutte attitudini da donnacce.

Non volendo essere da meno, io e le mie compagne ci figurammo di compiere da sole quel viaggio sul Tamigi; ma come intraprendere la traversata narrata da JKJ nel suo romanzo?

Un ripasso fu d’obbligo.

L’idea dell’autore si era manifestata per caso, dopo il viaggio di nozze in barca sul fiume. Già, perché durante le avventure narrate nel libro, guarda caso, J. non era in compagnia di amici, ma con la deliziosa mogliettina (la scenetta del bollitore del té, riadattata, ve la dirà lunga).

Jerome era partito baldanzoso per una romantica vacanza sul fiume, propenso ad annotare luoghi storici e vestigia, ma non era andata così. L’idea di redigere un racconto sui dintorni del Thames (una guida serissima alle bellezze fluviali, concepita per gente dabbene), iniziò a vacillare. Il resoconto di quella vacanza delineò una vera catastrofe, ma divenne irresistibile. L’editore ne colse quest’aspetto e tagliò molto del resto.

Forse, con i guadagni del libro, Jerome potè farsi perdonare dalla moglie per quella disastrosa luna di miele.

Come vedete, ridere porta bene.

Cicale, si diceva. Confortate da una buona dose di pigrizia, ci chiedemmo se fosse davvero il caso di addentrarci in un’impresa tanto faticosa. E discutemmo delle opere cinematografiche tratte dal libro. Troppo inglesi lamentò Francesca; troppo datate, le fece eco Luisa. Insomma, neanche il film del 1956, dove tra gli interpreti figurava la nostra Lisa Gastoni, riuscì a stare al passo del romanzo.

Non è detto che l’elemento semantico possa innestarsi nelle sequenze di un film in modo congeniale, direbbe qualcuno uso al linguaggio della critica, senza contare che un viaggio in barca sul Tamigi non possiede alcun messaggio sociale e quindi vederlo è da considersi una perdita di tempo.

O no?

Il mondo di Jerome è forse un never-never land?

Un c’era una volta esistito nell’Inghilterra Edoardiana, destinato a non riapparire più?

Certo è che l’espediente consentì al narratore di costruire un’esilarante vaudeville, animata da una fitta rete di conoscenze: sfaccendati, villanzoni, pescatori bugiardi, parenti allocchi, fanciulle delicate.

Una ripetitiva produzione di luoghi comuni che servirono ad accattivare l’attenzione del lettore, per poi condurlo all’ammissione della comicità di certi atteggiamenti. Insomma, un prodotto appagante dal punto di vista distensivo, mentre il disimpegno ideologico dello scrittore non pesa.

Ma mi chiedo se tutta questa leggibilità abbia guastato la possibilità di farne un prodotto da cinema, dato che, quando un libro è bello, è difficile eguagliarlo. Tre uomini in barca possiede una perentorietà descrittiva orchestrata con maestria indiscutibile, un mondo che potreste dire destituito da ogni plausibilità e che per questo diviene invisibile alla cinepresa.

Intanto, noi ragazze ci eravamo figurate come potesse apparire il tanto atteso Tamigi al risveglio di primo mattino.

Pensavamo che ci saremmo accampate sulle ultime sponde erbose, così da alzarci col sole alto, scostando pigramente la zanzariera all’imboccatura della tenda; a piedi nudi saremmo balzate agili sull’erba, mentre il fiume scorreva placido.

Una di noi avrebbe proposto di pescare, ma le altre si sarebbero mostrate sfavorevoli: era troppo bello vedere tutti quei pesci sguazzare senza paura degli umani, così come aveva scritto Jerome. L’acqua nei pressi della riva sarebbe apparsa balneabile e poco profonda e ci avrebbe invitate a prendere un bagno.

Ma forse ci stavamo sbagliando…

Una palude stagnante, odorosa di petrolio e gas di scarico, dove tre derelitte, male in arnese, sarebbero strisciate fuori della tenda spettinate, doloranti per qualche accidenti che avevano avuto conficcato nella schiena. E che dire dell’umidità? Perché di sicuro avrebbe preso a piovere e i capelli di Francesca, che erano ricci naturali, si sarebbero acconciati in modo tale da ricordare Medusa.

Filippo, dal canto suo, ci avrebbe tenuto sveglie tutta la notte emettendo latrati accorati: la caccia ai topi di fogna che banchettavano attorno alle provviste era cominciata. A quel punto noi avremmo dovuto piantare tutto e cercare in tutta fretta un albergo… se non fossimo state donne, ma uomini. Le donne di ogni epoca si rimboccano le maniche e mettono tutto a posto. Questo è il guaio e la sorte che sarà toccata alla moglie di Jerome.

Per la verità anche il Tamigi, non più biologicamente morto come dichiararono negli anni sessanta, ha ripreso nuova vita con gli interventi di bonifica e assieme alla fauna ittica sono tornate le foche e persino una specie di balene, anche se la nuova minaccia è rappresentata dalla plastica.

Ma è ovvio che nella comicità è la legge di Murphy ad avere la meglio. D’altronde i nostri eroi, che pure erano autoctoni e vivevano in ben altro contesto ecologico, in assenza di una donna, se l’erano battuta alla prima difficoltà.

Abituati ai rimandi sovratestuali dei nostri comici, dimentichiamo che la vera comicità deve essere, come prescriveva Vincenzo Cerami, attuale e universale, ecco perché dove regna una dittatura la comicità muore.

Una volta lessi che Orwell considerava un umorista come un uomo di larghe vedute che non ha il dovere di tenersi aggiornato sui fatti del mondo. Quest’osservazione ci permette di divertirci senza troppe preoccupazioni.

Nella comicità di Jerome non rintraccerete dettagli che rimandino ad argomenti imbarazzanti o alla sessualità. E così è facile calarsi nei panni di George, Harris e J. (sebbene sia spassoso lo stato di inebetimento dei nostri giovinotti di fronte alle fanciulle, descritto con un’infinità di accenti).

Le battute del libro divengono parte della nostra esperienza e dell’esperienza di tutti. Come il fervido pasticcione zio Podger che finisce per ricordarci il Signor Uckridge di P.G. Wodehouse (ma anche quel nostro parente…).

Forse l’apprezzamento mai tramontato per il nostro Jerome consiste proprio in quell’aggettivo dispregiativo che gli fu rivolto.

Quella futilità, semplice e gioiosa dell’infanzia, di cui tutti abbiamo nostalgia.

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Fulminata sulla via della recitazione a 9 anni, volevo fare la filmmaker a 14 e sognavo la trasposizione cinematografica dei miei romanzi a 17. Solo a 18 anni ho iniziato a flirtare col cinema d'autore ed a scrivere per La Gazzetta di Casalpalocco e per il Messaggero, sotto lo sguardo attento del mio​ indimenticato​ maestro, il giornalista ​Fabrizio Schneide​r​. Alla fine degli anni 90, durante gli studi di Filosofia prima e di Psicologia poi, ho dato vita ad un progetto di ricettività ecologica: un rifugio d'autore, dove gli artisti potessero concentrare la loro vena creativa, premiato dalla Comunità Europea. Attualmente sono autrice della rubrica "Polvere di stelle" sul magazine art a part of cult(ure) e collaboro con altre testate giornalistiche; la mia passione è sempre la sceneggiatura, con due progetti nel cassetto, che spero di poter realizzare a breve.

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