Premio Pierluigi Cappello, abitando le parole al passato e al futuro

Marcello Marciani

e a poco a poco ci si raddensa una dolcezza intorno
come una perla intorno al singolo grano di sabbia,
una lettera alla volta pronunciamo un nome amato
per comporre la sua figura; allora la notte diventa cielo
nella nostra bocca, e il nome amato un pane caldo, spezzato.”

Scriveva Pierluigi Cappello in Da Lontano; a Pordenonelegge il nome amato è proprio il suo,  diventato pane spezzato per essere condiviso. Da chi scopre oggi i suoi versi, che tornano a suonare nelle voci dei giovani Carlo e Miruna del gruppo poesia del liceo Leopardi Maiorana, ma anche da chi ne raccoglie l’esempio, per continuarlo.

Per questo è nato, tre anni fa, il Premio Pierluigi Cappello, affiancandosi al Premio Malattia della Vallata; il nostro Pordenonelegge non poteva che cominciare così, dal riconoscimento di un premio attento, come lo era Cappello, alla poesia friulana e in dialetto, ma anche alla poesia per bambini e ragazzi, a cui il poeta friulano teneva indimenticabili lezioni.

Ad aggiudicarsi il Premio Cappello 2020 per la poesia in dialetto è Marcello Marciani, col suo Revucegne – Rovistamenti, edito da Puntoeacapo. Le sue liriche nel dialetto della sua Lanciano lo avvicinano, secondo Giacomo Vit, al canzoniere di Saba.

Ciò che colpisce, ascoltandolo declamarle con una teatralità pronunciata e coinvolgente, sono il ritmo e la musicalità, in una ricchezza di allitterazioni che le fa suonare come una filastrocca.
Del dialetto, in effetti, censurato dall’abitudine famigliare, racconta il poeta, «mi incuriosivano le costruzioni sonore». Dalla sua poesia in italiano, infatti, a cui il dialetto è stato recupero e conquista, emerge una lingua piena di forestierismi, dialettismi, gergo, «lontana dal poetichese e vicino all’espressività del parlato».

Si è così rivelato necessario il sistema tutto vocale del dialetto, in cui però «molti concetti erano intraducibili senza metafore corporee. Sono rarissimi i termini astratti e anche per i sentimenti servono associazioni corporee». L’approdo naturale e necessario di un poeta che da sempre cerca nella parola espressività del corpo, delle cose, che così si vede potenziata.

Per Marciani, poi, poesia significa anche indagine etnografica. Riscoprire radici, essere parre di una comunità intesa non come piccola patria chiusa, ma come luogo di vissuto collettivo: «in dialetto anche l’esperienza individuale diventa pubblica», e può essere riportata attraverso un’espressività più aperta e comunicativa.  Così si può accostare la lingua vissuta insieme del dialetto a quella precisa dell’italiano, la cui ricchezza di sinonimi restituisce un verso più esatto, e lo modifica.

Così come ha fatto, sul versificare di Marciani, l’attività di attore che gli consente muoversi tra declamazione e performance, recuperando anche la tradizione canora della poesia cantata sotto le volte della loggia del municipio.

Prima del teatro, racconta, il suo verso «era lirico, autobiografico, anche se provavo a smussarlo sulle cose Nel teatro, dovendo interpretare, ho scoperto che l’io del poeta poteva diventare io rappresentato, mettersi al servizio di altre personae, altre maschere.»
Attraverso la fascinazione sonora, l’appartenenza a una comunità, così come su un palcoscenico, il poeta può “entrare in vite altrui che per un transfer dovuto al linguaggio già sapevo come avendole vissute».

Vite altre come sono quelle dei bambini, a cui Giusi Quarenghi regala, con la riedizione del suo Si può (Franco Cosimo Panini), «in tempi di manuali sull’educazione, uno scrigno di sorprese e un gioco d’intelligenza», commenta Valentina Gasparet. Per mostrare, spiega Quarenghi, che «la libertà ha a che fare col potere e con la potenza che diventa atto o resta sospesa, condivisa».

Servono, insomma meno regole, più generosità, serve condividere tempo e verità coi bambini, proprio come faceva anche Cappello, attraverso una parola aperta e precisa, sicura. In cui Ogni goccia balla il tango, e lascia a tutti i pulcini del mondo uno spazio di scoperta. Come il viaggio di Quarenghi illustrato da Alessandro Sanna, attraverso «una giornata bambina dentro un gioco a scoprire che libertà è scegliere di non fare.

E fare spazio intorno ai bambini, togliergli la certezza di ciò che vogliamo che siano, di come dovranno essere felici – Mentre di solito, nota Quarenghi, li conformiamo ai sogni nostri, un amorevole Narciso in trasferta su un altro territorio, un territorio fragile. Un territorio sacro, misterioso, che ci lascerà indietro».
L’invito è molto chiaro, quindi: Lasciamoli sognare in proprio, e sogniamo ancora noi adulti, ma non per interposta creatura.

Scoprire il si può è «lasciare aria intorno al farsi dei bambini che gode di una grazia speciale, che non lo conosciamo, che è nuovo. Lasciamogli aprire le mani e scoprire il mondo che portano con sé. Dopo aver creato questo, che titolarità abbiamo per dirgli come deve essere?».

Del resto, come spiega Szymborska, ogni generazione rifà il catalogo del mondo, lo racconta e lo mappa di nuovo.
Non solo ai bambini, dunque, necessita «scoprire la libertà di non adeguarsi a sogni di cui non sappiamo il sognante, che arrivano completi, da comprare o eseguire».

Questo significa permettere a ogni bambino di Essere solo come tu sei tu.

Liberarli quindi della valanga di stereotipi che infestano i libri per bambini e non vengono notati. «L’inflazionata idiozia del rosa e dell’azzurro, una stereotipia emotiva e affettiva, senza spazio per la dignità di non sapere il mistero del cercare qualcosa di più grande».

Verso un mondo nuovo a cui ci sembra che non possiamo accompagnarli, ma sono loro che ci accompagnano, verso uno sguardo nuovo sul mondo e sulla relazione, anche con loro.
Parlare con i bambini e ascoltarli come portatori di esperienza, con la consapevolezza che non è vero che per il bambino la poesia è solo rima e gioco: «Il bambino che impara a parlare è l’inizio della creazione, la sacralità del dire, che dà un nome e fa essere».

Come nella poesia in dialetto, così per i bambini «quando diventa un verso quello che ti è successo non è più un vissuto, è un’esperienza che ti ha costruito. O demolito, ma anche quello è un gesto architettonico»  dentro cui trovare uno spazio, se è vero che, scriveva Cappello:
Fra l’ultima parola detta – quella che ci ha condotti fino a qui, nella lingua antica e pratica del dialetto
e la prima nuova da dire – quella che i bambini costruiranno per sé e il mondo
è lì che abitiamo.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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