Cura di sé e del pianeta: i fondamenti di una Nuova terra

immagine per La madre terra

“Ascolto gli icaros e i suoni della foresta e penso a Nur, a quanto le sono grato per avermi fatto questo regalo immenso: ho visto l’invisibile. ho udito l’inudibile e ho compiuto l’impossibile”.

Si è mai pronti davvero a scoprire quel che non credevamo esistesse, a percepire quel che credevamo perduto, a immergersi nel fondo di se stessi? Non sapeva di esserlo, Leone Amodeo, protagonista di La nuova terra, libro appena uscito per Guanda.

È l’ultimo romanzo di Sebastiano Mauri (che con il suo protagonista condivide l’apprendistato accanto ai curanderos sudamericani), scrittore, regista, attivista, artista nelle molteplici declinazioni che può prendere una creatività che non vuole, etichette.

Non lo sapeva, Amodeo, ma evidentemente era pronto, a essere sfidato a perdere tutto per rinascere a una vita nuova, a una nuova terra, appunto. A compiere il viaggio più difficile e più lontano. Più ancora di quello verso il cuore della foresta amazzonica, tra Bolivia, Perù ed Equador, dove gli indigeni Shipibo Conibo conservano il contatto con la Pachamama, la madre terra, e i suoi doni. Tra cui l’ayahuasca. Una pianta che in Occidente evoca diffidenza, sballo e santoni.

Nelle maloche nel pieno del polmone del pianeta invece è la medicina – una parte delle molte che ancora non abbiamo voluto scoprire. La mano che ti accompagna dove non osavi andare. A liberarti di ciò che – dentro e fuori il tuo corpo – lo inquina, e poi ad aprirti a ciò che il mondo di cui sei parte ti vuole parlare.

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La madre terra, cover

Nessuna creduloneria; ad essere mosso dalla medicina è il DMT, la molecola che dà forma ai nostri sogni, il guardiano della soglia della nostra coscienza.
Una azione che sperimentiamo in tre momenti dell’esistenza: il sonno, appunto; poi la morte e la nascita.

La medicina prende per mano Leone e lo accompagna – e lo sfida – a immergersi nel fondo della propria vita, dove si nasconde quanto di più profondo si è. Solo lì hanno luogo gli assoluti, solo lì si vede davvero la parabola del vivere, ripetuta ad ogni levar del sole, così come tutte le volte nella vita in cui senza consapevolezza lasciamo che la vita e il mondo ci consumino.

È un uomo consumato, il Leone Amodeo che giunge – chiamato dalla cugina Nur o forse da sé stesso – nel rigoglio debordante della foresta per il suo primo incontro con la medicina, e con la Madre.

Un uomo malato di abitudine, di vuoto, di assenza di senso “Certe conquiste dell’anima e della conoscenza non sono possibili senza malattia” scrive Thomas Mann. Ed è quella malattia che la medicina fa emergere e brillare, insieme ai colori e ai suoni che chiama alla sua mente e alla meraviglia che gli regala (e con lui al lettore), la Pachamama – la Madre Terra – che mentre lo accompagna nel fondo di se stesso per farlo riemergere, gli consegna una missione: portare la sua voce fuori, oltre il confine della foresta – ormai sempre più stretto.

Questa è l’urgenza che indubitabilmente muove l’autore e il suo protagonista: farsi portatore del grido di dolore dell’ecosistema di cui siamo parte, e dell’occasione di rinascita che il tempo del dolore e del disorientamento – che da individuale, nell’ultimo anno, si è fatto collettivo – porta con sé.

La crisi climatica che procede a grandi e rapidi passi, suggerisce l’artista di origini italoargentine, è sintomo e malattia al contempo è la rappresentazione e la conseguenza di tutti i mali di cui siamo afflitti collettivamente e individualmente. Le disuguaglianze sociali, ad esempio.

In quattrocento pagine che scivolano via rigeneranti – e utili – come l’acqua di fonte, c’è senz’altro un’urgenza – e questo romanzo denso come lo è la vita, vissuta e non lasciata trascorrere, racconta anche questo. La chiamata a un responsum, risposta e responsabilità, purchè sia il migliore che possiamo dare.

Eppure questo non è il romanzo della disperazione, dell’angoscia o del rimprovero. È semmai, il romanzo del coraggio. Anche quello di affrontare la paura. Di guardarla dritta negli occhi e porgerle la mano per avvolgersi in un tango intimo e pieno di pathos, riconoscendo che è lei a salvarci la vita.

immagine per Sebastiano Mauri amore del libro La madre Terra
Sebastiano Mauri

Quello di Sebastiano Mauri è, quindi, prima di tutto, un romanzo di cura. Di sé e – così facendo – del corpo di cui siamo a nostra volta membra. Al contrario di ogni pretesa lettura individualista, del resto, anche il percorso con la medicina insegna che curandero è chi ha saputo curare se stesso.

Incontrare Leone Amodeo ed essere disposti a seguirne il viaggio – sotto la guida delle curandere – significa riconoscere quell’intimo sé proteso a cercare di compiacere tutte le voci che non sono la propria.

Una selva di grida in cui la voce della Pachamama arriva con la dolcezza decisa e accogliente di un canto, un icaro, il canto cerimoniale.

Leggere “La nuova terra” può essere un’esperienza che ha i caratteri catartici proprio delle cerimonie su cui permette di gettare uno sguardo – anch’esso finalmente nudo di pregiudizi e supposizioni.

La narrazione – nel passo spedito (e l’abbondanza di dialoghi) di una sceneggiatura, è capace di muovere le corde più profonde di ciascuno. Così come la medicina e le sue trasformazioni. S’intende, a patto che si sia disposti a lasciarle risuonare. Che si sia pronti a mostrarle come il segno vivo e a suo modo luminoso delle ferite che emergono in cerimonia, perché Mauri non ne fa mai un espediente d’autore.

Tra i (diversi) pregi di un romanzo ad altissima intensità emotiva, infatti, c’è soprattutto la schiettezza. Non ci sono infingimenti, orpelli o vezzi. Nessuna pretesa di trasformarsi in maestro spirituale, né quella di usare il tema del cambiamento climatico come pretesto narrativo accomodante. C’è, semmai, la parola come terapia. E del resto è proprio questo che fanno gli icaros: generare cura attraverso – e dalle – parole.

La messa in discussione di sé – dei propri valori, delle proprie relazioni, delle proprie abitudini e certezze – prende così per Amodeo la densità potenzialmente dirompente di una profondissima seduta di autonalisi individuale e collettiva. In cui non soltanto la cura, ma il futuro medesimo, se esiste, non potrà che declinarsi al femminile.

Anche il viaggio di Leone Amodeo verso di sé e alla ricerca del proprio rimosso più intimo è – coerentemente – un viaggio a liberare il proprio femminile, a sanare la più profonda delle ferite: la mutilazione del proprio sé. Che, ancora una volta, non è mai femminile singolare. La lezione degli Shipibo Conibo infatti è chiara. La Nuova Terra – che i calendari Aztechi segnano per il 2020 – non si dà senza due pilastri: l’ifutisu, l’equilibrio e il rispetto della natura, certamente. Ma ancora di più, un ancor più inconcepibile (almeno fino al tempo della pandemia, in cui la sopravvivenza passa dall’agire di chi ci è accanto) a pensarsi come specie, e come tale tendere alla salvezza collettiva.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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