Hagard di Lukas Bärfuss. Il falco selvaggio e forsennato dell’amore.

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La prima cosa che colpisce e cattura in Hagard, il romanzo di Lukas Bärfuss, traduzione di Marco Federici Solari (L’Orma Editore) è la velocità contemporanea della narrazione. Una scrittura importante e al contempo scarna, una visione del tempo come un susseguirsi di strati che si sovrappongono cancellando quelli venuti subito prima.

Bärfuss racconta, come in uno storyboard la storia di Philip stregato da un paio di ballerine viola: le immagini, plasmate dalla parola scritta, si susseguono e i lettori lo vedono perdere man mano tutto: ogni altro impegno, le scarpe, il portafoglio, la macchina mentre incontra personaggi che, se fossero disegnati, avrebbero aspetti o posture terrificanti.

“Qualunque incontro presuppone un iniziale oltrepassamento della linea che la decenza traccia attorno a ogni individuo. […]  Se Philip avesse voluto rivolgere la parola a quella donna, il che non è affatto sicuro, avrebbe comunque dovuto compiere un’azione come minimo sospetta.
Sicuro è invece il modo in cui si scostò dal pilastro a cui era appoggiato: d’un tratto e senza un attimo di esitazione, come i bambini piccoli quando di colpo lasciano cadere una bambola. Nulla in loro, non un muscolo, non una minima tensione, tradisce il fatto che di lì a un istante apriranno la mano; non c’è alcuna anticipazione, alcun pensiero prima del movimento… In quella stessa maniera Philip si staccò e si lasciò trascinare dietro a quelle ballerine, dietro a quei piedi, nella fiumana che si riversava in direzione dell’opera.”

Come in un thriller della parola, sul racconto, spesso, prende il sopravvento la disseminazione di indizi che in parte costruiscono la storia, ma soprattutto alimentano la necessità del lettore di trovare una pista, un sentiero, una via, un qualsiasi escamotage che consenta di tenere a bada l’ansia che procura questa lettura sospesa, dove la soluzione sembra non arrivare mai.

immagine per Hagard di Lukas Bärfuss, coverMa chi è questo narratore? È lo scrittore che racconta il processo narrativo dal suo punto di vista? Quello di colui che non è il deus ex machina, ma che si fa guidare da un preciso elemento della narrazione. Un elemento individuato e messo lì per fantasia o per intenzione. Un oggetto che urge da qualche parte dentro la mente e che diventa il motivo per cui la storia accade.

E se non fosse lo scrittore che scruta dentro il suo personaggio, ma un investigatore reale che cerca il bandolo di una matassa troppo difficile da districare perché è fatta del materiale di cui sono fatti i sentimenti?

Nella linearità della storia, dove ogni cosa procede, ineluttabilmente, da quella precedente, ogni volta che si fa strada un dubbio, una possibile nota a margine sul protagonista, un altro futuro, si continua a venire sballottati fra possibilità da prendere, da lasciare, da riprendere o da negare, senza la possibilità di deragliare, perché il racconto stesso non è altro che una corsa fuori dai binari. Come la vita.

Sarà così fino alla fine: in una sola giornata il protagonista segue un destino che sembra non dipendere da lui; che non dipende da lui, ma da un meccanismo nel quale tutti, prima o poi, siamo stati presi. I più fortunati riuscendo a fermarsi in tempo. Gli altri, invece, come Philip: lasciandosi andare alla deriva, abbagliati dalla meraviglia del gesto quotidiano quando lo si vede improvvisamente descritto in tutto il suo dispiegarsi.

Nel succedersi degli eventi di quell’unica giornata che dura ancora e ancora (almeno finché il narratore non riuscirà a chiarire a se stesso cosa mai è accaduto, sempre se ci riuscirà) s’innestano digressioni e metafore, si parla della nostra come di  “un’epoca di passaggio, la cui fine, quando ci sarebbe toccata in sorte, avrebbe significato una sola cosa: il tramonto del mondo per come lo conoscevamo”.

La scrittura di Bärfuss è urgente e incalzante, ha la capacità di connettersi e identificarsi con la lingua del nostro presente: comunica problemi, necessità, catastrofi, impellenze, usi e abusi che leggiamo o visualizziamo ogni giorno e, al contempo, non si ritrae dal raccontare il percorso interiore più impellente e difficile, quello della cultura di fronte al sentimento, della razionalità intellettuale di fronte all’esplosione di “un’esistenza che si sacrificava sull’altare degli antichi dei, e l’unico possibile senso era contenuto in quel rito terrificante, nell’indicibile festa in cui a un essere umano viene strappato dal petto il cuore ancora palpitante”.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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