Felicità, esordio alla regia di Micaela Ramazzotti.

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Felicità,  film d’esordio di Micaela Ramazzotti, è un’utopia; in fondo è solo la ricerca di una pace interiore cercata, trovata con forza e visibile nell’ultima sua immagine, sfuocata sullo schermo.

Quell’attimo di respiro, nella continua deriva dell’essere umano nell’attuale momento, fatto di egoismi, indifferenza, cinismo, manipolazioni, umiliazioni e sopraffazioni. Guai ai buoni, ai sensibili, agli altruisti come la protagonista da lei interpretata Desirè Mazzoni.

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La Ramazzotti che ha scritto, coadiuvata da Isabella Cecchi (Ovosodo e La prima cosa bella) e Alessandra Guidi, interpretato e diretto questo suo primo film, facendo frutto della sua esperienza nella commedia all’italiana, consolatoria ed ormai piena di stereotipi di Paolo Virzì (suo ex marito), è riuscita a spostare un poco oltre quel ritratto di decadenza umana e culturale italiana, ignorante, intollerante, perbenista e disonesta, patetica e volgare, ormai caratterizzata in tanti altri film.

Ma non è comunque mai arrivata a percorrere il solco della narrazione delle storiacce, che sono l’altra faccia della cosiddetta commedia noir italiana. Avendo, con una sua particolare conformazione artistica acquisita nel tempo (dal 2000 ha recitato ormai in almeno 40 film) interpretato una figura di basso ceto sociale (di tipo borgataro) si è sentita pronta a dare una spallata ai vecchi cliché ormai ripetuti nel cinema italiano.

Così ha messo in scena quelle degradazioni affettive tra padri e figli, tra compagni complici d’amore, o nei rapporti in ambienti di lavoro, sempre trattati con molta sufficienza, camuffando la reale verità.

Nella storia di Felicità ci sono due genitori, Max (Max Tortora) e Floriana (Anna Galiena) che, al di là di una inadeguatezza alla genitorialità, usano la disistima ed accuse fasulle come ricatti morali verso i due figli, la innocente, ingenua Desiré ed il solitario, depresso Claudio.

Quando parliamo di gap generazionali, parliamo di vecchi, che ancora ricordano il ‘900 e giovani che vivono il tecnologico 2000. Ma non si è mai analizzato come siano le generazioni di mezzo.

I due genitori del film sono due falliti nel loro lavoro, due guitti da avanspettacolo, che vivono di espedienti e di imbrogli, corrotti e pieni di apparenza e di rancori. Pronti sempre ad allearsi per dare la colpa ai figli, rendendoli succubi delle loro manie e, con accuse poco plausibili, pronti solo a sfruttarli.

Parlare di famiglia disfunzionale è troppo riduttivo, e lo stesso concetto non funzionale è troppo edulcorato e falso. Chi ancora usa questi termini vorrebbe nascondere la realtà di famiglie molto cattive all’interno di se stesse e continuare a santificare istituzioni ormai mutate nelle loro valenze e nei loro comportamenti.

Ciò che la regista Ramazzotti, in un film plumbeo e triste, ha voluto dire chiaro, è che questa società è ormai arrivata al capolinea del benessere diffuso, alle strategie per coprire debiti non più solvibili, ma soprattutto ai disagi mentali che stanno dilagando (in questo caso il fratello di Desirè, Claudio).

Con le cure mediche sbagliate o fai da te, piene di psicofarmaci, con ricoveri in strutture private psichiatriche e disperazioni profonde che possono portare al suicidio.

Brava questa regista nella sua critica ad una società che sta mostrando la sua sempre più profonda superficialità, cercando di supplire l’amore, l’affetto, la comprensione e la solidarietà con le faccine, i cuoricini e tutte le altre insulse maniere di comunicare. Forse perché non c’è più niente da comunicare!

Micaela Ramazzotti con la sua dolce semplicistica innocenza è personaggio positivo, autentico, generoso, perdente tra una serie di ‘bastardi’ (dal padre, al compagno, agli speculatori senza scrupoli, alle amorali maestranze del cinema ed a tutti i manipolatori di ingenui).

Il fratello Claudio (Matteo Oliveto visto già ne La terra dell’abbondanza) un debole, strano, con disagi psicofisici, deciso ad uscire da questa società in cui non si riconosce, coccolato troppo dalla madre, che, in contrasto con la figlia, in lui vede la vera femmina. E così lo ha allevato, con un vago sospetto di omosessualità. Gli fa perfino i colpi di sole nei capelli, oltre riempirlo di pasticche e tenerlo a letto come una pupa.

Ed infine il compagno Bruno, un professore acculturato e superiore alla semplice parrucchiera Desiré (interpretato splendidamente da Sergio Rubini), che guarda tutti questi poveracci dall’alto della sua ormai defunta superiorità, ma che fa più male degli altri, con il suo comportamento equivoco buono/cattivo (non si riesce a capire perché conviva con lei, forse per una sua perversa sessualità, lasciandola poi per mettere su famiglia con una sua allieva che attende un figlio).

Ci voleva la fotografia di Luca Bigazzi per rendere al meglio un ambiente, quasi sempre a tinte cupe, sia per gli esterni ed interni dei casermoni di case popolari dove vivono i genitori, i dormitori delle cliniche psichiatriche, gli ambienti tristi dei set del cinema e le case dei borghesi, compresa quella di Bruno, in cui non sembra si stia a tavola per mangiare, ma a vegliare a lume di candela qualche moribondo.

Ed anche qui solo Desirè, con tutti i suoi difetti, in mezzo a tanti zombi, emerge come l’immagine verace, magari fuori luogo, della vita.
Bravi tutti gli interpreti ma ancora più bravo in un perfetto editing Jacopo Quadri.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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