#RoFF18. La fine da cui cominciamo.

immagine per La fine da cui cominciamo (The end we start from)

Inizio di un nuovo ciclo per la Festa del Cinema di Roma con la Presidenza di Gian Luca Farinelli, Direttore della Cineteca di Bologna dal 2000, che ha dichiarato, mentre controllava per l’ultima volta le Sale dell’Auditorium, la libreria, il Red Carpet, e tutto quello che ruota intorno alla Festa:

Tutto pronto, tutto in ordine!

Ma tra gli addetti ai lavori più importanti, cioè i giornalisti, si parla della 18a edizione come la cenerentola tra tutte le altre.  La mancanza delle grandi produzioni americane per gli scioperi delle attrici/attori, registi e sceneggiatori ecc. di cui ormai tutti sanno, ha stravolto una programmazione preparata e rimaneggiata, che si è sentita subito nelle prime giornate, anche se ravvivate dal cinema d’autrici e d’autore italiani ed europei.

Così, in un programma che nel primo weekend (sempre stato il momento più alto della Festa) presenta un Red Carpet con buchi di notorietà (a sentire i fotografi), determinato dai pochi Blockbuster ed outsider in arrivo, dopo una estate in cui il pubblico romano e non solo è stato irretito e bombardato da film come Barbie, Oppenheimer, Supermario, Avatar e Shark 2, sembrerebbe un pericoloso passo indietro far rivedere film dell’altro secolo (anche se restaurati) come Storia del cinema e film come The best of 2023, che sono già passati in altri festival importanti.

Il pubblico purtroppo vuole vedere ormai le meraviglie del cinema avanzato e futuribile (Imax, 70 mm., Marvel, grandi storie ed effetti speciali a gogò, oltre alle Star mitizzate dell’epoca presente.

C’è stata anche un’altra novità con l’introduzione di una prenotazione online, da effettuare (soprattutto dai giornalisti od accreditati), soltanto 48 ore prima della proiezione, ma la scritta che compare quasi sempre, “Non ci sono posti disponibili, riprova più tardi”, non è trasparente, perché se si liberano posti, il programma non si aggiorna e non sa rendere i posti svincolati, con la conseguenza di sale cinematografiche, incluse quelle dell’Auditorium, spesso con notevoli poltrone vuote in sala e spettatori fuori particolarmente delusi.

Resta ora da parlare del film La fine da cui cominciamo (The end we start from), con un biglietto prenotato, perché fortunatamente non è un film da fine del mondo (ce ne sono a bizzeffe in questo momento), ma un film che parla con molta umanità di noi animali viventi nei confronti dei cambiamenti climatici, che purtroppo non vogliamo vedere e capire; e che non analizza l’elemento catastrofe in se stesso ma come ognuno si può rapportare a situazioni diverse da quelle che noi occidentali viviamo ogni giorno, ormai cristallizzate da tempo (possiamo anche dire dalla fine della seconda guerra mondiale): parliamo di sopravvivenza per mancanza di nutrimento!

La fine da cui partiamo è un romanzo di Megan Hunter e del quale un attore sensibile come Benedict Cumberback, aveva comprato i diritti prima che fosse pubblicato nel 2017. Cumberback è anche produttore (SunnyMarch) ed è riuscito a trovare oltre altri produttori (tra cui l’attrice protagonista Jody Comer e Mark Strong) anche il finanziamento della potente BBC e del famoso BFI (British Film Institut) attraverso i proventi delle lotterie.

Adattato da una delle più note sceneggiatrici inglesi (ultimo suo capolavoro la serie Succession, da non perdere) il film ricorda La strada di Cormac McCarthy, ma in questo caso le vicissitudini sono quelle di una giovane donna con un bambino di pochi giorni e poi mesi nel pieno di una catastrofe, un’alluvione senza precedenti che colpisce Londra e l’Inghilterra (forse anche altre parti del mondo) facendo marcire ogni tipo di coltivazione.

A titolo di assonanza ci sono tre romanzi di fantascienza del grande scrittore inglese J.G. Ballard (Il vento dal nulla 1961, Il mondo sommerso 1962 e Terra bruciata 1964) che parlavano già allora di catastrofi naturali causate dai cambiamenti climatici.

La fine da cui cominciamo è diretto con una sensibilità prettamente femminile da Mahalia Belo con un cast su cui primeggia per intensità e partecipazione Jody Comer, con Joel Fry, Katherine Waterston, Mark Strong, e lo stesso Benedict Cumberback.

Un film che parla di sopravvivenza e di ricongiunzione in un contesto in cui ormai mancano non solo il benessere, o meglio il semplice cibo, ma ogni punto di riferimento, prima in una Londra completamente sott’acqua, inabitabile, senza servizi ed alimentazione, per cui è necessario spostarsi. Per poi lasciare anche i comuni più alti, dove sono i genitori di una coppia con un bambino appena nato, per mancanza di cibo: sono infatti finite tutte le riserve alimentari, mentre le forniture degli organi governativi e dell’esercito vengono presi d’assalto dai cittadini affamati e diventati pericolosi per sé e per gli altri.

La fine da cui cominciamo, al di là della catastrofica situazione creatasi, parla dal punto di vista di questa donna (non ci sono nomi propri perché tutti possono essere uguali) che ha bisogno di trovare un qualche conforto in questa situazione.

Con un dolore che aumenta, per la morte dei genitori, avvenuta prima di trovare il suo uomo, poi con le morti violente dei genitori del marito ed infine con la separazione dal marito stesso, perché negli asili, messi a disposizione dallo Stato può entrare solo un bambino accompagnato da un genitore, cioè la madre.

Sullo sfondo tutto quello che di più animale succede nel mondo per accaparrarsi il cibo che manca, che scatena i peggiori istinti di sopravvivenza. Ma quello a cui si assiste, con il grande merito dell’attrice Jody Comer, è un film in cui si parla in maniera profonda di maternità (il bello ed il responsabile di essere mamma).

La donna comprende subito dal parto improvviso che si verifica in concomitanza delle piogge pesanti e dell’allagamento della casa, quanto sia importante la sua sopravvivenza per la sopravvivenza del piccolo Zeb (unico nome del film). Quanto sia importante trovare sempre cibo per trasformarlo in latte per il suo bambino.

In un mondo in cui tutto è cambiato (anche le conquiste di multiculturalità, il marito infatti è nato da una donna afro ed un padre bianco) il punto di riferimento è la tenacia di una donna che lotta, nonostante tutte le disgrazie, perché sente fortemente il suo ruolo di essere madre e di ricostituire la sua famiglia.

Poetiche e commoventi le scene del racconto imperniate sul piccolo Zeb che cresce come un bambino felice perché protetto, da una madre coriacea, che riesce a superare tutti gli ostacoli e soprattutto riesce a prendere decisioni vitali, pericolose ma razionali, ispirate dal solito amore materno, e da una salda personalità.

Quando l’asilo in cui si era rifugiata viene saccheggiato la donna si ritrova con una compagna di sventura (Katherine Waterston) con un figlio piccolo anch’essa, ad intraprendere un viaggio al buio, per raggiungere un’isola in cui c’è una caritevole comunità, che come una setta rifiuta i rapporti con la società ‘costituita ed ormai imbarbarita’ e vive con le sue regole. Capolavoro l’incontro fortuito con un disperso (Benedict Cumberback in un brano molto intenso). Un uomo che ha perduto moglie e figli nel crollo di un ponte, travolto dall’acqua e che non vuol dimenticare come tanti altri e vuole ritornare dove ha perduto i suoi cari.

Dopo circa un anno, considerato che si sta creando un miglioramento del tempo e non ha più alcuna notizia del marito, la protagonista della storia vorrebbe ritornare a Londra per ricostituire una famiglia (forse).

L’altra madre con cui si è creato un forte legame di confidenza e collaborazione non ha il coraggio di lasciare l’isola, ormai supina alle regole che si creano in tali momenti di emergenza e di confusione. Regole pericolose che già stiamo vivendo, quelle di comunità, anche virtuali, che stanno cancellando le iniziative personali degli individui.

Una storia originale che fa vedere a chiare lettere come non siamo assolutamente preparati a vivere cambiamenti epocali, sia naturali sia sociali, non siamo preparati a cercare soluzioni alternative alla paura ed alla violenza ed alla mancanza di beni e regole di convivenza.

Non mancano nel film di Mahalia Belo brani di sogni e ricordi, quali gli incontri della coppia prima del matrimonio o incubi sepolti nei rari momenti di pausa e riflessione, che riescono ad alleggerire i vari momenti di disperazione. Perché anche questa fa parte dell’essere umano e l’attaccamento alla vita alla fine paga, come succede a Londra alla eroina del film.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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