La bambola spezzata. Quando una madre non si può dimenticare né amare

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Una figlia e una madre. Madre, non mamma. Quella parola così invocata da una parte non riesce ad essere detta dall’altra. C’è la storia di due donne e allo stesso tempo quella dell’intero pianeta al centro de La bambola spezzata – di Emilia De Rienzo, per la regia di Gianni De Feo sul palco insieme a Irma Ciaramella e Alessandra Ferro – andato in scena al Teatrosophia.

Eva (Irma Ciaramella) è una giovane donna che fa l’attrice e recitando trova la sua dimensione ma una volta spenti i riflettori ha un vuoto dentro con cui deve fare i conti: l’abbandono, quando aveva solo sei anni, da parte di sua madre che ha scelto di consacrarsi alla “fede” nazista e di entrare a far parte delle SS.

È il 1978 quando deciderà di ritrovare e rincontrare dopo diversi decenni la madre, ormai anziana e condannata dal tribunale militare come criminale di guerra, per sanare quella ferita. A spingerla, più che la necessità di recuperare un rapporto con la genitrice è soprattutto il bisogno di chiarirsi e fare i conti con una parte della sua vita perché “per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte”.
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L’anziana donna entra in scena pur essendoci in realtà sempre stata. È seduta su una sorta di trono di legno, coperta da un lenzuolo bianco che la figlia toglierà al momento dell’incontro in una sorta di disvelamento catartico.
È vestita in maniera bizzarra – in totale contrasto con la figlia, che indossa un vestito nero, spezzata da un lutto indelebile – con un abito largo e cencioso con una svastica disegnata, trucco pesante nascosto inizialmente da un paio di occhiali da sole, collane di perle bianche rosse e verdi tanto lunghe da caderle disordinatamente sul ventre pingue e una cresta sulla testa. Inizialmente sembra dormire, è immobile punto da far sorgere, insieme alla mise surreale, nello spettatore il dubbio che si tratti di un manichino.
Il confronto tra le due donne, come in un ring, si fa gradualmente più incalzante, serrato, appassionato e intimo. Più volte la madre riesce paradossalmente anche a mettere in crisi la certezza della figlia di essere (stata) diversa da lei. Se inizialmente la reazione della madre è di rifiuto (“Tu non sei mia figlia, mia figlia è morta tanto tempo fa come suo padre. Io non posso avere una figlia così vecchia, io sono giovane e bella”), pian piano si sposta sul piano della realtà ma mai su quello dell’empatia.

Il disvelamento ha le fattezze di una vecchia bambola, quella che prima di lasciarla la madre aveva regalato alla bambina e che ha un tragico legame con le azioni criminali della donna che il pubblico, come la protagonista, scoprirà solo alla fine.

Eva, adulta e bambina allo stesso tempo, chiede e vuole sapere, continua a porre domande sia rispetto all’abbandono sia al fatto che la madre si fosse consacrata ad una fede che l’ha resa una criminale di guerra e che non mostra alcuna forma di pentimento né per l’allontanamento dalla sua bambina né per le atrocità compiute nelle vesti di SS.
Domanda dopo domanda escono fuori gli orrori di cui la donna si è macchiata negli anni del regime nazista e della guerra (assistenza ai medici responsabili del programma di eugenetica nell’eliminazione dei bambini disabili visti dal Reich come un inutile costo oltre che una minaccia per la purezza della razza ariana, vigilanza alle internate del campo di Auschwitz).

Quella madre, rappresentata – con un’interpretazione magistrale di Alessandra Ferro che dà spessore e corpo ad un personaggio tutt’altro che semplice – con tratti caricaturali che sembrano stonare con il racconto degli orribili misfatti ma allo stesso tempo quasi paradossalmente coerenti con l’incomprensibilità degli stessi, disvela gradualmente gli effetti di quel processo di disumanizzazione a cui l’ha sottoposta, con il suo consenso, il regime.

Il lavoro registico di De Feo – che entra in scena per un paio di eleganti camei attoriali e musicali – risulta particolarmente riuscito nell’offrire una narrazione a tratti anche disturbante, rafforzata dalla recitazione e dai sapienti cambiamenti di tono e registro vocale ed espressivo delle protagoniste, che arriva dritta allo stomaco dello spettatore causando incredulità per l’incapacità della madre di comprendere l’enormità delle nefandezze compiute e rabbia che si concretizza quasi nel desiderio di intervenire per risvegliarla da questa fascinazione criminale.

Come una bambina capricciosa vinta dalla noia e dalla solitudine, interrotta solo dalla presenza degli angoscianti fantasmi del passato, la madre tenta di imporre il suo volere impartendo ordini – ora delle orchidee bianche, ora di essere accompagnata dal parrucchiere e ora che la figlia resti a vivere con lei – fino a quello più insopportabile per la giovane figlia: esser chiamata e riconosciuta come “mamma”, appellativo con cui esige un affetto che non ha mai dato né meritato.

Il dramma e la vicenda personale di Eva si incastrano in quelli universali. Per l’uno come per l’altro, non ci è soluzione se non la presa di coscienza e la elaborazione per poter andare avanti. Per Eva il processo si compie con il confronto e il recupero del proprio passato dopo il quale lascia la madre in preda ai suoi fantasmi avendo ormai affrontato e sepolto i propri trovando la tanto auspicata pacificazione – concretizzata nel “No, madre, non ti odio. Semplicemente non ti amo, non posso amarti” finale – con il passato che le impediva di andare avanti serenamente.

Una pièce che porta in scena una tragedia dell’umanità puntando su un punto di vista insolito e sicuramente non banale. Una sfida che il pubblico premia, oltre che con gli applausi a fine spettacolo, facendo registrare il sold out già prima della prima, tanto da costringere il teatro e la compagnia ad aggiungere una ulteriore replica per fare fronte al grande numero di richieste.

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Classe 1987. Romana di nascita, siciliana d’origine e napoletana d’adozione. Giornalista professionista, comunicatrice e redattrice freelance. Da sempre appassionata di (inter)culture, musica, web, lingue, linguaggi e parole. Dopo gli studi classici si laurea in Lingue e comunicazione internazionale e in seguito, presso l’università “La Sapienza” di Roma, si specializza in giornalismo laureandosi con una tesi d’inchiesta sul giornalismo in terra di camorra. Ha poi conseguito un master in Giornalismo (biennio 2017 – 2019) presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Giornalista per caso e per passione, ufficio stampa e social media manager per festival, eventi ed associazioni in particolare in ambito culturale e teatrale oltre che per Europride 2011, Trame – Festival dei libri sulle mafie e per Save the Children Italia (2022). Collabora con diverse testate occupandosi in particolare di tematiche sociali, culturali e politiche (dalle tematiche di genere all’antimafia sociale passando per l’immigrazione, il mondo Lgbtqia+ e quello dei diritti civili). Vincitrice della borsa di studio del premio “Giancarlo Siani” per l’anno 2019.
Fotografa, spesso e (molto) volentieri.

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