Ho paura Torero. Pedro Lemebel e i paesaggi di libertà dei rifiutati.

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Il più grande poeta cileno non ha mai scritto un verso. La qualifica non l’ha attribuita uno qualunque, ma Roberto Bolano. Parlava di Pedro Lemebel, eroe nazionale in patria e autore, oltre che di molte cronache, di un unico romanzo portato in Italia, meritoriamente, da Marcos y Marcos: Ho paura torero, in scena fino a metà febbraio al Piccolo Teatro con la regia di Claudio Longhi, ma oggetto – fuori dal teatro di via Rovello – di una messe di appuntamenti collaterali forse ancor più interessanti, che tracciano intorno a lui i legami tra i mondi che ha abitato.

immagine per per Ho paura torero. foto Masiar Pasquali
foto Masiar Pasquali

Pedro Lemebel, è nato a Santiago del Cile negli anni Cinquanta, come ama dire con il divertito vezzo di non volersi collocare temporalmente, che è anche una sottile dichiarazione di poetica. La sua figura assomma definizioni: performer, indio mapuche, travestito, fieramente frocio (questo è il termine che sceglie per sé), e nessuna basta a descriverlo pienamente, Longhi e Guanciale – al Teatro Franco Parenti, scelgono di farlo attraverso i paesaggi in cui trova un’eco, una radice, una prossimità possibile.

Si potrebbe, senz’altro, andare anche oltre: in scena forse gli assomiglia l’argentino Copi, coi suoi travestiti un po’ politici e molto surreali, che con lui condivide l’origine sudamericana. Per quanto siano visioni tutte eurocentriche, sulle pagine si potrebbe trovare una eco in Genet, e nella Nostra Signore dei Fiori che animano una Parigi lontana dagli sguardi. Nelle urgenze militanti, invece, viene in mente Pier Paolo Pasolini, con il quale è tuttavia il primo a identificare una distanza che serve a spiegarlo, nel ritratto che traccia di sé. “Non sono un frocio mascherato da poeta. Non ho bisogno di maschere”.

Il trucco del travestito, per l’artista cileno, svela. Non soltanto la propria identità più autentica, ma anche le ipocrisie altrui. Punta il dito – con la stessa decisione del Pasoliniano “io so”, ma senza alcuna omissione – contro la riprovazione che viene da sinistra (di cui lo stesso scrittore friulano fece le spese), l’ipocrisia dell’illusione rivoluzionaria che può – sul fronte della libertà – meno del capitalismo.

immagine per per Ho paura torero. foto Masiar Pasquali
foto Masiar Pasquali

Non ci sono visioni accomodanti e ideologiche, nelle parole di Lemebel, che rifiuta qualsiasi semplificazione. E c’è, invece, un centro ineludibile della sua riflessione, di cui la tematica identitaria è, a ben guardare, un portato: la questione di classe, che condiziona i comportamenti e segna la misura della propria ricattabilità.

Lo si capisce ritornando alla forma originale da cui muove anche Ho paura torero, la pagina scritta, con la ricchezza narrativa e la complessità che solo la pagina concede, e a cui Guanciale presta la voce con raffinatezza e sensibilità, dando spessore alle proprie qualità di attore drammatico.

Evocare le similitudini, e riconoscere i tratti dello sfondo dell’immagine è forse l’unico modo per provare a trovare i contorni di un protagonista del quadro che rifiuta ogni forma di confine. Sono allora quelli geografici scelti da Longhi e Guanciale, la misura utile per comprenderlo meglio. Iniziando dalla voce da cui siamo partiti, Bolano, e dal Cile che li ha uniti e dal quale, nella lunga notte della dittatura Pinochetiana Lemebel non ha mai voluto andarsene.

Pescando dalle pagine di Bolano, dal buio febbrile di Notturno cileno, l’ipocrisia del progressismo da salotti raffinati prende accenti drammatici, nella memoria di dell’orrore della tortura nascosta nei corridoi sotto i piedi di una festa di intellettuali, mentre in Amuleto affratella la resistenza cilena a quella dell’Uruguay, o Buenos Aires e i suoi poeti a città del Messico.

Sono, in qualche modo, portati di mitologie condivise, le stesse che abitavano il  Grande Sertao trasfigurato in romanzo da João Guimarães Rosa, nei suoi eroi banditi, Riobaldo e Diadorim, e in un legame che – in un sorprendente colpo di coda – ribalta le categorie di genere ed esplora, provocando l’immaginario comune del 1958, la complessità delle relazioni e il labile confine tra amore ed odio, devozione e lotta.

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foto Masiar Pasquali

Se nelle parole di Lemebel, però, la diversità è una rivendicazione, non può che trasformarsi in arma. Da usare contro un mondo che la riduce alla misura di utili idioti, di macchiette grottesche pronte a fare da ancelle a ogni potere indifferentemente al cambiare della bandiera, così come Gonzalo, Gonza, il ridicolo stilista a disposizione della primera dama cilena, moglie del dittatore Pinochet, che a lui chiede di non somigliare a “quella pacchiana” di Eva Peron.

Il parallelo con l’Argentina della dittatura e dei migliaia di desaparecidos che ha prodotto non può che essere quello più immediato con la Fata di Lemebel, e la sua storia di lotta nel Cile Pinochetiano. Viene in soccorso Il bacio della donna ragno, di Manuel Puig, e l’amore tra il rivoluzionario Valentin e Molina, omosessuale costretto dalla propria subalternità (è ancora, anche, una questione di classe) a fare il doppio gioco a servizio del potere, finchè l’amore non cambia il tracciato delle sue scelte.

La libertà, sotto la dittatura, si paga con la vita. Ed è chi non ha più nulla da perdere che è più disposto, contro tutti, a sacrificarla per somigliare a se stesso.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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