Prima danza, poi pensa. James Marsh cerca Beckett tra ricchezza intellettuale e povertà esistenziale

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Quando si nomina Samuel Beckett (1906-1989) un riflesso condizionato porta a pensare e poi a dire “Aspettando Godot” (la sua opera teatrale più famosa del 1952), espressione entrata nella cultura di massa come un meme moderno.
Ebbene, ora il regista James Marsh, usando uno dei tanti aforismi di questo famoso letterato irlandese, Prima danza, poi pensa, ha costruito un biopic che va al di là della sua intensa vita letteraria e teatrale: parla, invece, della storia di un essere umano incapace di vivere una vita normale, di comunicare e di generare rapporti d’amore, pieno di angosce e di rimpianti. Con un alter ego che gli impedisce di godere di un presente felice, spendendo energie per ricordare un passato di tristezza ormai concluso ed in attesa di un futuro incerto, in attesa della morte.

James Marsh aveva già diretto una pellicola biografica, di impronta simile (La teoria del tutto del 2014) su Stephen Hawking, fisico e cosmologo, affetto da una malattia degenerativa (atrofia muscolare progressiva) seguendo più il percorso del deterioramento del corpo e della mente del famoso scienziato che le difficilmente divulgabili idee sulle sue scoperte.

Il film candidato a 5 premi Oscar aveva ottenuto il Premio per la migliore interpretazione del protagonista Eddie Redmayne.

Ha detto Marsh:

“Ho composto una biografia insolita di Samuel Beckett perché passa in rassegna, attraverso dei ricordi, alcuni momenti della sua vita e gli errori che ha fatto con le persone che lo amavano”.

L’espediente usato per passare in rassegna le fasi chiave della sua vita è quello di far fuggire Beckett dalla premiazione al Nobel di Stoccolma (1969) in un universo privato e cerebrale dove trova un altro sé stesso (un altro Beckett) con cui parlare soprattutto dei suoi rapporti con le persone che per nascita o per volontà ha frequentato, a cominciare dalla sua giovinezza.

Una madre religiosa e autoritaria (May Beckett), un mentore non disinteressato, (James Joyce), una innamorata pazza (Lucia Joyce), una guerra poco eroica (si definiva come un ‘boys scout’ nella resistenza francese), un amico tradito e finito in un campo di concentramento (Alfred Peron), una compagna protettiva, pratica e fedele (Susanne Dechevaux – Dumesnil), un’amante giornalista di rango (Barbara Bray), una vecchiaia molto triste. Tutto rivissuto in una serie di flashback, scaturiti dalle conversazioni e dai litigi tra i due Beckett (rappresentati magistralmente dall’attore Gabriel Byrne).

Beckett era schivo, cupo e solitario, pieno di difetti di cui aveva piena coscienza. Incapace di farsi apprezzare e di promuoversi, la madre severa leggendo i suoi scritti li considerava ‘uno spreco di tempo’. Lo stesso Joyce lo teneva come segretario e traduttore e desiderava che sposasse sua figlia Lucia, che aveva turbe psichiche, malgrado amasse tanto ballare (Dance first) come forma terapeutica.

Bisognoso assolutamente di una donna (Susanne) che lo accudisse tanto in casa che con gli editori; per gli impresari lasciava interessare la sua amante trentennale, la giornalista e sceneggiatrice Bray (in un mènage a trois, lungo e tormentato). Malgrado il bisogno di questi legami utilitaristi ma poi oppressivi della sua libertà, attraverso una debole resistenza passiva, cercava di vivere in una sua autonomia, in un suo mondo ideale. Ma comunque si realizzava, sempre, nell’originalità dei suoi scritti.

Se nel primo periodo della sua creatività trovava difficoltà nei rapporti e nell’essere riconosciuto come grande autore, nel momento in cui venne anche insignito del Nobel, considerò la fama ormai acquisita come “una catastrofe”.

Nel film da questo momento, Beckett, a varie riprese, si incontrerà nell’Altromondo con il suo alter ego, per ricordare torti fatti e subiti, amarezze e rimpianti in un pessimismo universale che aveva già manifestato nelle sue opere. Il vuoto di senso ed il senso di colpa dilagano nelle parole e nelle azioni e troveranno le loro vette proprio in Aspettando Godot, in un’attesa che rende forse tutto meno disperato.

Dopo l’esperienza di una terapia per disturbi psichici con Wilfred Bion per due anni (1934/’36), in cui entrambi si erano influenzati a vicenda sull’alienazione dell’uomo moderno, dopo le sue opere letterarie (Murphy, Malone muore e Malloy) in cui la sua filosofia, con in mente la frase di suo padre morente, “Lotta, lotta, lotta”, portava a tentare sempre nuove strade per poi come soleva dire “fallire meglio” Beckett si dedicò a scrivere drammi teatrali.

Scardinando e scomponendo la quotidianità con effetto comico-tragico e grottesco, con dialoghi ed eventi privi di logica consequenziale apparente, legati da un esile traccia emotiva, Beckett riuscì a creare, come figura influente e rivoluzionaria, il dirompente Teatro dell’assurdo, cui si aggregarono Eugène Ionesco, Arthur Adamov e successivamente Harold Pinter.

Ma torniamo al film Prima danza, poi pensa (“E’ l’ordine naturale” conclude poi il suo geniale aforisma). In tutto il racconto della prima parte della sua vita si potrebbe dire che traspare una sua personale adesione all’esistenzialismo, come individuo solo di fronte al pessimismo, al nihilismo ed alla morte.

Felici gli anni in cui, in una reale povertà di beni, l’amore di Susanne gli riempie la vita e la guerra lo porta ad uscire da sé stesso ed a compiere atti ‘quasi eroici’ (avrà anche una medaglia) a Roussillon in Provenza, dove si era rifugiato per sfuggire ai nazisti.

Poi nel dopo guerra la sua più intensa produzione di idee e di opere, fino al Premio Nobel per la letteratura “per la sua scrittura, che – nelle nuove forme per il romanzo ed il dramma – nell’abbandono dell’uomo moderno acquista la sua altezza” (valutazioni del Comitato Nobel).

Il successo teatrale, in cui mette in scena anche l’autobiografica Commedia (Play) in cui un uomo e due donne (la moglie e l’amante) chiusi in tre giare con solo le teste di fuori, si raccontano. Rappresentazione pubblica del suo pluriennale rapporto da concubino, che incrina fortemente il rapporto con la moglie.

Infine gli ultimi anni dolorosi, con l’esasperata Susanne, ormai critica sulle incapacità fisiche e mentali del marito, si ammala e muore (1989), mentre Samuel, dipendente dall’ossigeno per un enfisema polmonare, muore qualche mese dopo.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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