Happiness Is a Warm Warm Gun. Sulla felicità nello spazio pubblico. #1 prima parte

Se lo spazio pubblico è il luogo della felicità, non sempre è stato lo spazio della felicità pubblica. Anzi, durante la postmodernità, con l’affermarsi della società dei consumi e dell’individualismo come stile di vita, è diventato sempre più uno spazio della felicità privata. Sarebbe errato pensare che la felicità privata si esprima esclusivamente negli spazi privati, così come sarebbe errato pensare che negli spazi privati non si sperimentino, alle volte, momenti di felicità pubblica. Come ha dimostrato Albert O. Hirschman (Felicità privata e felicità pubblica, 1982 – Bologna, Il Mulino, 2003), indipendentemente dalla vastità della propria rete relazionale, la felicità privata si manifesta nei consumi. Consumi non durevoli, come cibo e bevande, consumi durevoli come acquistare abbigliamento, un’automobile, un appartamento, ecc., consumi di servizi come l’istruzione, la salute, il divertimento. Mentre la felicità pubblica si manifesta nella vita activa, nel sottrarre tempo alla felicità privata per dedicarsi con soddisfazione, nelle molteplici modalità possibili dell’attivismo, a un obbiettivo che chiama in causa la trasformazione della società.

Ora, la felicità è felicità, e fuori da ogni moralismo, non si può stabilire che la felicità pubblica sia migliore della felicità privata o viceversa. Quel che è certo è che fino a non molto tempo fa non bastava stare insieme e in molti nello spazio pubblico per provare la felicità pubblica se ciò che ci faceva stare insieme e in molti era il consumo. Così come si poteva stare in pochi in un appartamento ma adoperarsi per un obiettivo di interesse generale.

Il celebre saggio sulla felicità privata e la felicità pubblica di Hirschman prende avvio da una serie di conferenze tenute nel 1979, poi riorganizzate in un libro nel 1981 che sarà pubblicato nel 1982. Scopo di Hirschman era di spiegare non tanto perché si scelga la felicità privata o la felicità pubblica, ma perché si passi dall’una all’altra, ciò che lo interessava era il passaggio, il cambiamento di stile di vita, il movimento oscillatorio in un momento in cui nei paesi occidentali vi era un riflusso dalle pratiche attiviste alla felicità privata a causa di un generalizzato senso di delusione.

Tra le cause di delusione che Hirschman indica vi è la difesa protratta ma largamente fallimentare di una causa, oppure al contrario, il successo, un obiettivo raggiunto nominalmente ma a spese degli ideali con cui ci si era cimentati fin dall’inizio e che erano stati il motivo dell’adesione all’attivismo. Quanto alle pratiche politiche tradizionali un motivo del loro abbandono è dovuto al fatto che si manifestano attraverso votazioni, in cui il voto del meno impegnato vale quanto il voto del più appassionato militante, una modalità che non permette di esprimere a pieno l’intensità con cui si vorrebbe partecipare alla vita pubblica e che può ingenerare frustrazione e alla fine delusione per il fatto di non poter incidere davvero nelle decisioni. Una vita pubblica in cui non vi sia felicità pubblica, ma delusione, frustrazione e allontanamento dagli ideali politici può ingenerare uno scadimento della moralità pubblica fino alla corruzione generalizzata. Inoltre, una causa del riflusso nella felicità privata non presa in considerazione da Hirschman ma che in Italia è stata fondamentale è quella della repressione dei movimenti. Come egli scrive, la soddisfazione dell’attivismo assomiglia a quello dei beni non durevoli, la felicità pubblica si manifesta partecipando (così come la felicità privata di consumare cibo e bevande si manifesta mangiando o bevendo) e non solo nel momento in cui si è raggiunto l’obbiettivo. La repressione non solo rende pericolosa l’adesione all’attivismo ma non permette più alla partecipazione di essere un momento di felicità, è come mangiare un cibo avvelenato. Solo i più motivati ideologicamente possono resistere a una tale pressione.

Lo spazio pubblico è stato per lungo tempo più lo spazio della felicità privata che non della felicità pubblica, la folla si raccoglieva nello spazio pubblico per consumare, in pochi o in tanti, da soli, con la propria famiglia e con i propri amici non ha importanza, quanto ai servizi essi si acquistavano direttamente o indirettamente con finalità private. Tuttavia, episodicamente lo spazio pubblico poteva divenire anche lo spazio della felicità pubblica, come quando vi è uno sciopero, un corteo, un conflitto aperto, oppure quando si occupa una scuola, una università o quando i lavoratori di un ospedale sono in stato di agitazione. Molto si è detto ma poco si è teorizzato su quanto questi momenti di felicità pubblica entrino in collisione con le traiettorie della felicità privata, come, ad esempio, quando un cittadino deve andare a lavoro e non passano gli autobus oppure quando un cittadino deve farsi visitare in un ospedale ma il medico di turno è mobilitato per difendere il suo posto di lavoro.

Ad ogni modo, oggi la questione è molto più complessa che non ai tempi in cui Hirschman scriveva il suo saggio. Utilizzeremo una serie di indicatori resi disponibili dal CNEL e dall’ISTAT per misurare il “benessere equo e sostenibile” per dimostrare che oggi la posta in gioco non è se la felicità debba essere privata o pubblica…: oggi tutte le lotte sono per la felicità tout court e la distinzione tra felicità privata e felicità pubblica è diventata più difficile.

La fine della postmodernità coincide con una delusione sia per la vita privata che per la vita pubblica così come si sono manifestate finora. Tanto che la situazione è piuttosto quella di una tristezza privata e tristezza pubblica generalizzate, un’insoddisfazione per un vita esclusivamente finalizzata ai consumi senza possibilità di vie d’uscita, perché la tristezza della vita pubblica è tale che vi è un rifiuto della politica tradizionale ormai concepita come luogo degli egoismi personali e della corruzione. In una tale situazione la felicità è divenuta un affare di stato, la felicità diviene un obiettivo politico nell’interesse di tutti e la distinzione è tra tristezza e felicità, ciò sta cambiando profondamente sia la felicità privata sia la felicità pubblica.

Si è usciti dalla postmodernità con un nuovo paradigma di cosa sia il consumo e di cosa sia l’attivismo che richiede ulteriori approfondimenti che qui possiamo solo accennare. Nelle lotte attiviste più dure la stampa ha avuto buon gioco nel mostrare gli attivisti vestiti con i caschi e gli scudi portare le “Nike” mentre rovesciano un’automobile, così come fin dalla rivolta di Watts si fa sempre rilevare come nei riots vi sia spesso qualche gruppo che assalta i negozi per appropriarsi delle merci esposte. Narrazioni utilizzate per depotenziare gli ideali e le motivazioni politici, talvolta molto più profondi di quelli dei politici tradizionali, che muovono questi attivisti. La felicità pubblica dell’attivismo in questo caso sembra compromessa con il consumo: certo, si vuole consumare gratuitamente e questa è proprio una delle sue nuove dimensioni politiche. D’altra parte, il consumo è sempre più consapevole, quello che Marx chiamava “feticismo delle merci” era dovuto a un’opacità delle merci stesse, il lavoro incorporato era opaco e ciò le rendeva degli oggetti fantasmagorici. Oggi il lavoro che è incorporato in una merce, ovvero chi (i lavoratori), come (in che condizioni oppure di che materiali è fatta la merce), quando (quante ore deve lavorare un lavoratore per produrla), dove (in quale posto del pianeta) sono informazioni sempre più reperibili e che permettono non solo di scegliere una merce piuttosto che un’altra, ma di organizzarsi politicamente per consumare in modo più responsabile, sano e sostenibile, che trasforma il consumo in un momento di felicità pubblica. Dunque da un lato la vita activa spesso non è più estranea al consumo perché il consumo è divenuto luogo di conflitto politico, dall’altro i consumatori spesso non sono semplici privati, ma nel momento stesso in cui innovano e autogestiscono le forme del consumo sono immediatamente attori pubblici che lavorano a una trasformazione della società.

Oggi essere in molti nello spazio pubblico non è più garanzia di felicità, né privata né pubblica, occorre mobilitarsi per innovarne gli usi per raggiungere la felicità e proprio questo semplice uso può essere considerato felicità pubblica, contrariamente a come è sempre stato. Sia i beni non durevoli – cibo, bevande, detersivi – sia i beni durevoli – elettrodomestici, edifici, automobili – sia i servizi, l’istruzione, la salute, il divertimento, ecc. sono direttamente implicati nella vita pubblica. Come si mangia, come si beve, se si usano detersivi inquinanti oppure no, prodotti da grandi industrie o autoprodotti, se si allunga la vita di un elettrodomestico invece che acquistarne sempre di nuovi (vi sono gruppi specializzati nell’allungamento di questi beni che hanno una finalità direttamente politica, forse il caso più interessante è Officine Zero a Roma), oppure come si riciclano, come si riusa uno spazio abbandonato, come si possono usare le automobili superando l’idea che siano esclusivamente una proprietà individuale e finalizzata all’uso individuale o di una famiglia, sono i temi politici della nostra epoca: la felicita privata s’innalza inaspettatamente a luogo del discorso pubblico e politico. Quanto ai servizi come l’istruzione, la salute, il divertimento, ecc. qui conta sempre più l’affettività, nel senso spinoziano, questo settore dei consumi è quello più implicato intimamente con il discorso sulla biopolitica, nuove forme della politica che decidono in maniera strategica della felicità pubblica e privata a un tempo delle persone.

Se non è difficile comprendere come il riuso temporaneo o permanente di uno spazio abbandonato per finalità creative o ricreative possa essere un momento ormai della vita pubblica (ma non è stato facile arrivare nella disciplina urbanistica ad esempio a organizzare un discorso che valuti le ragioni degli squat come legittime quando il potere politico tradizionale non può formalmente considerarle mai come tali), d’altra parte resta difficile comprendere le ragioni di chi spacca la vetrina di una banca e allo stesso tempo desidera consumare le merci, meglio se di lusso, gratuitamente, di chi è attivista e desidera accedere a questo modo alla felicità privata. Eppure se tanto si è scritto che il consumo è il luogo della felicità privata, perché alcune persone dovrebbero esserne escluse, se si propaganda il lusso come il massimo della felicità privata perché scandalizzarsi se si vuole il massimo della felicità privata ben sapendo che un lavoro precario porterà tristezza e insoddisfazione e non potrà mai farla raggiungere e che chi già ne gode spesso è un corrotto? La richiesta è impossibile e insostenibile, lusso per tutti perché il lusso è il massimo della felicità privata, ma cosa continuano e si ostinano a propagandare le nostre società e perché non dovrebbero essere prese sul serio? Se il consumo è il luogo del conflitto di oggi non è anche qui che si gioca la partita dell’uguaglianza? Anche qui il “feticismo delle merci” ha un cedimento, perché il valore della merce non viene più compreso in un’epoca in cui si paga più il valore del brand e del design che non il lavoro di fabbrica incorporato, la vetrina che separa la merce dal consumatore, questa fragile cortina che per tanto tempo ha tenuto lontani i lavoratori dal prodotto del proprio lavoro e che si faceva rispettare non regge più. Il desiderio di appropriarsi gratuitamente delle merci di lusso significa riportare il brand e il design che vi è incorporato al valore zero, inoltre danno soddisfazione più perché permettono di mettere insieme i pezzi di una propria identità e poter accedere a una cultura urbana la quale è il reale bacino di cooperazione sociale dal quale scaturisce il design, che non perché siano come dicevano gli economisti moralisti del XIX secolo “gingilli” e “ninnoli” con cui baloccarsi.

Nel prossimo approfondimento, #2, faremo uso della serie di indicatori del Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (BES) del 2014 che analizzano punto per punto il tema che qui stiamo trattando, e cercheremo di giungere a una conclusione di felicità auspicabile che, leggerete, dovrebbe e può essere qualcosa di condiviso…

Bibliografia

  • Agamben G., L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza, 2014.
  • Arendt H., Vita activa: la condizione umana, Bompiani, Milano, 2009.
  • Bianchetti C. (a cura di), Territori della condivisione. Una nuova città, Quodlibet, Macerata, 2014.
  • Foucault M., La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 1976.
  • Hirschman A. O., Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna, 2003.
  • Internazionale Situazionista, “Il declino e la caduta dell’economia mercantil-spettacolare”, in Internazionale Situazionista 1958-1969, Nautilus, Torino, 1994.
  • Istat, BES 2014. Il benessere equo e sostenibile, Istat, Roma, 2014.
  • Jameson F, Postmodernismo, Fazi, Roma, 2007.
  • Marx K., Il capitale. Critica dell’economia politica, Avanzini e Torraca, Roma, 1965.
  • Stiglitz J. E., Sen A. K., Fitoussi J-P., La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale, Etas, Milano, 2010.
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Daniele Vazquez è antropologo, psicogeografo, urbanista e scrittore di science fiction. Tra i fondatori del Luther Blissett Project, ha fatto parte e fa parte di numerosi gruppi anti-artistici, attivisti e di ricerca indipendenti sulle forme di vita urbane, tra i quali l’Associazione Psicogeografica Romana. Ha pubblicato contributi per diversi libri, articoli per numerose riviste e nel 2010 il volume Manuale di Psicogeografia, nel 2012 il romanzo La comunità dei sogni, nel 2015 La fine della città postmoderna, nel 2016 ha fatto parte dell’équipe di ricercatori che ha lavorato al volume Sviluppo e benessere sostenibili. Una lettura per l’Italia, nel 2018, con Cobol Pongide, il libro patafisico Ufociclismo. Atlante tattico ad uso del ciclista sensibile e, con Laura Martini, la raccolta di scritti del Centro di Ricerca dei Luoghi Singolari: Che cosa è un luogo singolare?

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